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- Qui Roma… Cosa bolle in pentola?
In questo caso meglio dire in padella. Una parola che si presta bene a spiegare perché l’italiano è una lingua che piace, perché “padella” è più musicale di pan e il pensiero va già a cosa c’è dentro ed ecco che non è più un utensile… in una mente affamata accade questo. Potremmo dire che per imparare una lingua bisogna anche mangiarla… e perché no… anche berla! Maneggiata da mano sapiente e decisa vediamo saltare in questa padella ingredienti insoliti ma iconici, Colosseo e opere d’arte insieme a maccheroni e pizza. Potenza della grafica… in una parola “cultura e identità italiana, in tavola”. Questo è il logo ufficiale ideato dagli studenti dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato per sostenere la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Ecco, l’ho detto tutto d’un fiato… ma ci sono voluti anni per costruire il dossier da porre sul tavolo dell’UNESCO: “La cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale”; questo l’inizio del percorso promosso dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura. Il dossier, coordinato dal Prof. Pier Luigi Petrillo (Università Luiss Guido Carli di Roma), doveva rispettare una serie di criteri funzionali al conseguimento del titolo ed è proprio di questi giorni la notizia che l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura ha espresso la sua valutazione tecnica positiva, confermandone quindi l’idoneità alla candidatura. Si tratta di un passaggio decisivo verso il riconoscimento ufficiale: la decisione finale sarà presa dal Comitato intergovernativo dell’UNESCO, che si riunirà a New Delhi, in India, dall’8 al 13 dicembre prossimo. Per comprendere appieno il valore di questo riconoscimento occorre spiegarne i contenuti e il contesto in cui si pone. L'Italia detiene oggi il primato per numero di patrimoni culturali iscritti all’UNESCO: 59 siti tra i patrimoni materiali e 19 patrimoni immateriali, in pratica in questo ambito è una superpotenza mondiale! Riguardo in particolare ai patrimoni immateriali già iscritti, nostri o di altre nazioni, tutti si riferiscono a tradizioni culinarie specifiche o riti alimentari regionali (Michoacán messicano, Washoku giapponese, il Kimjang coreano, l'arte dei pizzaioli napoletani, la dieta mediterranea condivisa con altre nazioni, ecc.), ma non all’intera cucina nazionale. Quella Made in Italy sarebbe quindi la prima cucina al mondo ad ottenere, nel suo complesso, il prestigioso riconoscimento. Attenzione però, la cucina italiana non è solo un insieme di piatti iconici, non si tratta di certificare quanto è buona la mozzarella né l’unicità della carbonara, ma è una vera e propria espressione culturale, sociale e storica, radicata in tradizioni che si tramandano da generazioni. Concetto spiegato al meglio dalle parole dei Ministri. Alessandro Giuli, Ministro della Cultura: “Dall’alta cucina a quella popolare, l’Italia, per le sue variegate caratteristiche geografiche e per le sue stratificazioni storiche multiformi, è impreziosita da una straordinaria pluralità di ingredienti, di piatti, di occasioni, di rituali legati al mangiare. La storia del cibo è storia della civiltà e della cultura. La cucina italiana rispecchia la società, la storia e il nostro rapporto con il territorio, oltre a essere una peculiarità tutta italiana”. Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura: “Noi non candidiamo un modo di cucinare, anche se tutte le cucine regionali italiane avrebbero i titoli per ottenere il riconoscimento a patrimonio immateriale dell’UNESCO, noi candidiamo un rito; un rito che appartiene a tutti noi, che parte dalla scelta dei cibi, passa per la cucina per approdare sulle nostre tavole dove ancora si parlerà di quello che si sta mangiando. La cucina italiana è questo, sono antichi saperi tramandati, è la gioia di stare insieme, di incontrarsi e di mantenere vivi i rapporti familiari e di amicizia”. In sintesi, il cibo è un pilastro della nostra identità e un potente collante sociale. A differenza di altre cucine, ad esempio quella francese che ha una matrice più “tecnica” perché inventata dai ristoratori, la nostra cucina nasce al mercato ed è stata inventata dalle nostre nonne e bisnonne. Nasce come atto di amore, dal prendersi cura delle persone. Questa caratteristica strutturale ne comprende altre due, ben evidenziate nel dossier: a) è un mosaico di diversità territoriali che riflette la diversità bioculturale del Paese, frutto di influenze culturali che si sono succedute nel corso dei secoli e quindi di tradizioni, spesso legata al ritmo delle stagioni. b) è estremamente dinamica , cioè in continuo cambiamento ma senza conflitto tra tradizione e innovazione, né tra un luogo e l’altro, senza campanilismo quindi ma quasi da campanello a campanello, quello di casa, dove ognuno crea la sua variante della stessa ricetta. È la condivisione di un alfabeto fatto di tante ricette che si possono scrivere in base al gusto personale. La cucina italiana si caratterizza quindi per un forte legame con i territori e la capacità di innovare senza perdere autenticità. Un patrimonio che unisce tradizione e futuro. Così l’UNESCO, nel confermarne i requisiti per aspirare al titolo, ne ha sottolineato l’approccio olistico che collega gastronomia, sostenibilità ambientale e identità culturale. “La cucina italiana è una tradizione vivente trasmessa all’interno delle famiglie e delle comunità” […] “promuove pratiche sostenibili come la riduzione degli sprechi alimentari e la conservazione degli ingredienti locali” […] “affonda le proprie radici nel contesto rurale ma è capace di includere interpretazioni moderne che continuano a rispettare i metodi tradizionali” […] “ I rituali legati alla tavola rafforzano i legami sociali e il dialogo intergenerazionale, offrendo al contempo creatività e ospitalità come tratti distintivi”. La convivialità è proprio il punto centrale del dossier e il comune denominatore ove si coagula questa estrema diversità: concepire il momento della preparazione e del consumo dei pasti come un’occasione di condivisione e confronto; cucinare e mangiare è un unico momento conviviale, siamo gli unici che mentre mangiamo parliamo di cibo. Non ci sediamo a tavola solo per nutrirci in un rapporto equilibrato di proteine, carboidrati e vitamine, è qualcosa di più… è cultura del vivere bene, stando insieme; motivo per cui l’Italia è universalmente riconosciuta e amata come la Nazione della grande bellezza, del gusto e del buonumore. Il pranzo della domenica è la massima espressione di questo tratto culturale ed è stato proprio questo l’evento organizzato per sostenere la candidatura nell’ambito della settimana della cucina italiana nel mondo 2025: domenica 21 settembre dal nord al sud d’Italia ogni città ha offerto la sua interpretazione del rito, trasformando piazze e cortili in un’unica scenografia nazionale (clicca QUI ). Persino le Ambasciate di Londra, Parigi e New York hanno imbandito tavolate, mostrando che la cucina italiana non appartiene a un confine ma a una comunità diffusa nel mondo. Tante sono state le iniziative per accendere i riflettori lungo il percorso su questo importante riconoscimento, per richiamare l’attenzione e fare il tifo, ma soprattutto per instillare la consapevolezza di ciò che siamo in modo che possiamo consegnarlo alle nuove generazioni affinché portino avanti il patrimonio che gli appartiene, della cultura nazionale a cui appartengono. La Federazione Italiana Cuochi, ad esempio, ha celebrato la candidatura in uno dei palazzi storici romani più sontuosi, Palazzo Brancaccio, con un evento in cui la fantasia enogastronomica tricolore l’abbiamo ascoltata dalle parole dei due Ministri, ma anche assaggiata e bevuta 😊 Qualcuno potrà domandarsi: “OK, tutto questo è motivo di grande orgoglio… ma quali sono i benefici?”. Innanzitutto, sulla scena internazionale rafforzerebbe la leadership dell’Italia e ci darebbe il diritto a pieno titolo di proteggere legalmente i nostri prodotti e servizi contrastando il fenomeno commerciale dell’ Italian sounding , perché non può e non deve bastare un tricolore su qualsiasi confezione o pubblicità del mercato estero per vendere qualcosa che non è italiano e gli somiglia pure poco. Significa difendere un volume economico di 250 miliardi di euro/anno nel mondo! Concretamente, valorizzare e tutelare questo nostro patrimonio significa rafforzare un settore strategico per l’Italia, che crea lavoro, ricchezza e contribuisce in modo determinante all’attrattività turistica del Paese: filiere produttive di qualità, imprese capillari e profondamente legate ai propri territori, giri d’affari miliardari. Infine, sul piano sociale, oltre ad essere un riconoscimento del lavoro di agricoltori, produttori, chef, ristoratori, famiglie e comunità che ogni giorno tramandano il sapere del cibo “fatto con amore”, diviene argomento per introdurre l’educazione alimentare nelle scuole, per contrastare il ricorso al fast food, street food, ready to eat, ecc., per non essere travolti dalla globalizzazione. Nelle grandi città si sta perdendo la cucina casalinga, il pasto a casa diventa “spilluzzicare qui e là” in momenti diversi e individuali, si sta perdendo lo stare insieme a tavola come momento educativo di dialogo. L’atteso riconoscimento non sarebbe quindi un attestato da incorniciare ma aprirebbe per l’Italia molteplici prospettive su vari piani. Per accompagnare l’Italia alla candidatura persino un brano musicale, un inno alla bellezza, è stato composto da Mogol e interpretato da Al Bano: “Vai Italia!” Incrociamo le dita e attendiamo, manca poco… Concludo rivolgendo un pensiero a quanti in questo momento, a Gaza, in Ucraina e altrove, non hanno tavola da apparecchiare, non solo la domenica, non hanno cibo e non hanno pace. Il più grande patrimonio immateriale dell’umanità da tutelare dovrebbe essere questo, la possibilità di sedersi a tavola insieme, in pace. Se prima di sedersi al tavolo di qualsiasi trattativa ci si sedesse a tavola… probabilmente molte questioni si risolverebbero meglio. La cucina italiana così come la lingua italiana, da sempre disponibili alla contaminazione con tutti i popoli che abbiamo incontrato nei secoli, sono strumenti di dialogo mai chiusi in sé stessi, ed è solo con il dialogo che si costruisce la pace. Per approfondire: https://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/sito_unesco/unesco_united_nations_educational_scientific_and_cultural_organization https://www.unesco.it/it/news/comunicato-stampa--consiglio-direttivo-della-commissione-nazionale-italiana-per-lunesco-23-marzo-2023/ https://www.lacucinaitaliana.it/article/cucina-italiana-patrimonio-umanita-unesco-perche-importante-petrillo/ https://www.ancicomunicare.it/il-pranzo-della-domenica-anci-masaf/
- Le origini della pasta
Comprensione del testo (B2) Le origini della pasta, vera e propria specialità del nostro Paese, si legano indissolubilmente alla tradizione della coltivazione del grano, già praticata all'epoca dell'Impero Romano. In particolare, sono state le colonie e il Sud Italia i luoghi dove si diffuse con maggiore rapidità. Normalmente, si attribuisce la nascita della pasta al ritorno di Marco Polo dalla Cina, avvenuto nel 1295. In realtà questa miscela a base di cereali ed acqua rappresenta un elemento imprescindibile della gastronomia mediterranea da diversi millenni. Nel tempo, le tecniche per lavorare il grano sono migliorate, dalla macinazione alla cottura. La pasta nella storia: le tappe più significative Le prime tracce di un alimento simile alla pasta risalgono al 1.000 a.C., quando l’uomo iniziò a coltivare il grano. Greci ed Etruschi crearono i primi tipi di pasta, come il “laganon”, un foglio di pasta tagliato a strisce. Un secolo prima di Cristo, Cicerone e Orazio apprezzavano la “lagana”, farina cotta in acqua senza lievito. Sovrapponendo le strisce si otteneva una sorta di lasagna. Il primo documento scritto sulla pasta è nel libro di Apicio “De re coquinaria”, dove si parla di “lagana” ripiena. Tra il 200 d.C. e l’anno Mille non ci sono molte informazioni, ma probabilmente in Sicilia nacquero i maccheroni chiamati “itriyah”, nome di origine araba. La diffusione della pasta in Italia Alcuni secoli dopo, i produttori di pasta iniziarono a diffondersi in diverse zone d'Italia, partendo da Campania, Puglia, Toscana e Liguria. A Gragnano, ad esempio, nel '500 fu assegnato il riconoscimento di "patria" della pasta di grano duro. Addirittura, due secoli dopo, l'assetto urbanistico della città subì delle modifiche volte a favorire l'essiccazione di quelli che venivano indicati come "maccheroni". Fu Napoli, nel '600, a dare il via alla diffusione della pasta come pietanza "di massa". In seguito ad una carestia diminuì il consumo di carne e pane, sostituiti proprio dalla pasta. L'invenzione della gramola, del torchio e della trafila favorì l'abbassamento di prezzo, rendendo la pasta ancora più popolare . Sempre in quegli anni nacque la salsa di pomodoro, da allora uno dei condimenti preferiti dagli amanti della pasta. La pasta fresca La pasta fresca rappresenta sicuramente uno dei fiori all'occhiello della gastronomia italiana. Non sono solamente i formati (dalle orecchiette ai maccheroni al ferretto, dai pici agli gnocchetti, fino ai cavatelli) a variare di Regione in Regione. Anche la "composizione", infatti, può essere differente portando alla produzione di pasta da tagliare, oppure da farcire con golosi ripieni. Due sono i procedimenti che consentono di ottenere l'impasto; se il primo prevede l'utilizzo delle uova, il secondo si caratterizza per la presenza di semola e acqua. ------- 1. Perché la pasta si diffuse inizialmente più rapidamente nelle colonie e nel Sud Italia? A) Perché il clima favoriva la coltivazione del grano B) Perché Marco Polo aveva portato la ricetta in quelle zone C) Perché lì non si consumava pane D) Perché la pasta fresca era più semplice da preparare 2. Perché la pasta divenne una pietanza “di massa” a Napoli nel ‘600? A) Per la scoperta della salsa di pomodoro B) Per una carestia che ridusse carne e pane C) Per l’invenzione della gramola D) Per l’arrivo dei maccheroni dalla Sicilia 3. In che modo le tecniche di lavorazione del grano influirono sulla popolarità della pasta? A) Consentirono di produrre più formati regionali B) Permisero di ottenere una pasta più gustosa C) Favorirono l’abbassamento del prezzo D) Rendevano la pasta fresca più digeribile 4. Quale collegamento si può fare tra le strisce di “lagana” e la lasagna moderna? A) Entrambe sono preparate con pasta ripiena B) La lasagna deriva dalla sovrapposizione delle strisce di lagana C) La lagana era condita con pomodoro come la lasagna D) Nessun collegamento, la lasagna è nata molto dopo 5. Perché Gragnano modificò il proprio assetto urbanistico nel ‘700? A) Per migliorare la coltivazione del grano B) Per favorire l’essiccazione dei maccheroni C) Per accogliere più mercanti di pasta D) Per costruire più mulini e torchietti 6. Qual è la differenza principale tra pasta da tagliare e pasta da farcire nella tradizione italiana? A) La pasta da tagliare usa solo acqua, quella da farcire solo uova B) Differisce nella composizione e nell’uso finale, cioè forma e ripieno C) La pasta da tagliare è più antica D) La pasta da farcire si prepara solo in Sicilia 7. Come si può descrivere l’evoluzione della pasta nel corso dei millenni secondo il testo? A) Da alimento povero a piatto gourmet B) Da semplice miscela di cereali e acqua a specialità regionale e nazionale C) Da pasta fresca a pasta secca industriale D) Da prodotto importato dalla Cina a prodotto esclusivamente italiano
- Qui Roma… Gettando una monetina nella Fontana di Trevi
Diciamo la verità… questo gesto venendo a Roma è una tappa obbligata, dopo il Colosseo; la monetina va lanciata di spalle nella fontana ad occhi chiusi esprimendo un desiderio, quello di tornare un giorno a Roma. Che ci si creda o no, ci si accalca comunque intorno alla vasca avvicendandosi a turno per farlo e fare la foto; la folla riempie la piazza ormai senza ore morte, anche la notte. Unico intervallo quando la fontana viene svuotata per la raccolta delle monetine (un aspetto da approfondire) e per la manutenzione. Del resto, lo scenario è di una bellezza imponente e ormai associato per sempre alla scena entrata nel mito degli anni d’oro del cinema italiano, in cui nel cuore della notte Lei, bellissima e sensuale, entra nella fontana in abito da sera e chiama Lui a raggiungerla: “Marcello… come here…”. Lui e Lei sono Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nel film La dolce vita di Federico Fellini. Se non l'avete ancora guardata, fatelo adesso (cliccate QUI ): è indispensabile per vedere la fontana in tutta la sua magia, come non l’avete mai vista. Ne abbiamo un vago ricordo noi romani nati in quegli anni, in cui si andava lì di notte, a concludere una serata davanti alla bellezza assoluta. Capolavoro settecentesco dell’Architetto Nicola Salvi, vincitore del concorso, secondo l’impostazione magistrale della piazza ideata da Gian Lorenzo Bernini… ecc… ecc... (trovate tutto su Internet), ma qualcuno si domanda mai “tutta quell’acqua da dove arriva?…”. Ecco la notizia di oggi: la fontana forse più famosa del mondo è il terminale dell’acquedotto più antico del mondo, l’unico ancora funzionante dopo 21 secoli, dal 19 a.C.: l’Acquedotto dell’Acqua Vergine. La parola terminale è efficace, ma tecnicamente si chiama “mostra” la fontana monumentale che segna la fine del percorso di un acquedotto, distribuendo acqua alla città e mostrando a tutti la grandezza dell’opera e del suo committente. Questa notizia ci dà lo spunto per parlare della grandezza di quello che non si vede e a cui non si pensa a Roma, che era conosciuta come “regina aquarum” per la rete di ben 11 acquedotti ad alimentare la più grande città del mondo antico (un milione e mezzo di abitanti) in continua espansione. Queste infrastrutture costituirono il più complesso e vasto sistema idrico che mai città all’epoca avesse conosciuto e divennero uno dei simboli della grandezza e della capacità tecnica che elevarono la città eterna a Caput Mundi. Si cercavano le sorgenti d’acqua nel territorio circostante e da lì la conducevano alla città con un ingegnoso sistema di condotti (da cui il nome di Via dei Condotti, oggi la strada delle grandi firme) che si snodavano per chilometri, sostenuti da archi a cielo aperto di varie altezze per creare le pendenze giuste e poi proseguire interrati nel sottosuolo della città e distribuire l’acqua alle esigenze principali: innanzitutto le terme (non c’era il bagno in casa, quindi era una pratica quotidiana per tutti oltre che luogo sociale), le residenze imperiali e dei patrizi, le fontane pubbliche (una ogni 80 mt.), botteghe, abitazioni e fontane… più di mille fontane e più di duemila fontanelle da cui abbeverarsi. Infine, condotte sotterranee raccoglievano quella usata e la riunivano alla piovana convogliando il tutto nella cloaca maxima. Furono le invasioni barbariche a distruggere tutto questo per assetare la città durante gli assedi e per un bel po’ si dovette tornare ad attingere l’acqua al Tevere e ai pozzi. In quel periodo tornò in auge l’antico mestiere dell’acquaiolo che portava l’acqua potabile a domicilio (ricordate il Facchino con la sua botticella… una delle statue parlanti?). Solo nel Rinascimento, con la Roma Papale, ripresero le grandi opere urbanistiche, tra cui il ripristino per quanto possibile dei vecchi acquedotti e la costruzione di nuovi; la città ebbe di nuovo acqua in abbondanza e prese così a dotarsi di fontane, vasche, mostre, fontanili, fontanelle, abbeveratoi in una sorta di gara tra pontefici, ordini religiosi e nobili casate romane a chi commissionava ai cosiddetti “fontanieri” l’opera più mirabile. L’acqua fu elemento ideale per la fantasia di scultori ed architetti e le nuove fontane divennero una delle più suggestive celebrazioni del potere. Fu quindi nel 1732 che Papa Clemente XII dispose la ricostruzione del tratto distrutto dell’Acquedotto dell’Acqua Vergine e bandì il concorso per la progettazione della sua mostra: Fontana di Trevi (da Trivium, trivio di strade, luogo della fonte). Sul fatto che si chiamasse “Vergine” come al solito a Roma realtà e leggenda si intrecciano e neanche vale la pena distinguerle perché in fondo fanno parte entrambe della cultura collettiva. Che sia stata una “virgo” (fanciulla), o una ninfa protettrice delle acque, ad indicare la fonte ai soldati romani o che il nome indichi la purezza dell’acqua non vi sono fonti certe ma poco importa. “Come è… come non è…” (modo di dire nel parlato italiano) l’acqua era effettivamente pura, leggera e priva di calcare (è proprio questo che ha preservato l’acquedotto così a lungo dal deterioramento) e “fatto sta” (altro modo di dire) che la scena della “Virgo/Ninfa” che mostra la fonte ai soldati è scolpita sopra la fontana. Ecco realtà e leggenda che convivono. Scommetto che sono pochi quelli che trovandosi a bocca aperta in contemplazione di tale capolavoro si soffermano a leggerne i dettagli, quel che conta è l’emozione che provoca. In fondo è questo che fanno le opere d’arte. Ma ogni opera contiene un messaggio e in queste opere monumentali è quello di un committente che vuole mostrare e scolpire nella storia la grandezza del suo operato e assegna all’artista prescelto il compito della narrazione. In questo caso bisogna riconoscere che il messaggio di magnificenza è arrivato forte. Leggiamo quindi cosa ci mostra questa scultura immensa: protagonista è il mare, l’immensa vasca che occupa tutta la piazza e finisce contro la scogliera resa viva da animali e piante. Al di sopra la divinità Oceano (dio del mare, dei terremoti, delle fontane e dei cavalli) alla guida del cocchio a forma di conchiglia trainato da due cavalli, uno calmo e uno agitato, proprio come è il mare, governati da due tritoni. Accanto a lui due figure femminili allegoriche, abbondanza e salubrità, riferite agli effetti benefici dell’acqua; al livello superiore due bassorilievi rievocano la storia dell’acquedotto: la fanciulla che mostra la fonte ai soldati e nell’altro Agrippa (genero di Augusto, il primo imperatore romano) che decide la costruzione di questo acquedotto più di 2000 anni fa… Storia arte e natura si fondono. Ma, tornando al percorso dell’acqua, per vedere l’acquedotto oggi occorre prima salire al Pincio (il punto più alto della zona e anche il più panoramico) dove l’acquedotto giungeva in città, per poi scendere a circa 27 metri nel sottosuolo partendo dal pozzo di accesso che ancora oggi si trova lì. La scala a chiocciola è ancora quella antica romana e il percorso sotterraneo conduce fino alla Fontana di Trevi dove si conclude. Non è un’esperienza accessibile a tutti, solo agli addetti ai lavori, c’è però un famoso documentario in cui il noto divulgatore Alberto Angela, con tanto di stivaloni fino alla coscia (immagine rimasta iconica per milioni di telespettatori), percorre l’acquedotto fino alla fontana… fino ad affacciarsi scenograficamente da una finestrella della cabina tecnica che si apre accanto al cocchio di Oceano direttamente nella fontana! Con lui potete farlo anche voi (cliccate QUI ). È invece visitabile, a pochi passi, l’area archeologica sotterranea del Vicus Caprarius che ha portato in luce casualmente durante il cantiere di ristrutturazione di uno storico cinema (ex Cinema Trevi) un serbatoio di distribuzione dell’acqua, ancora oggi alimentato dall’acquedotto, che ancora oggi alimenta altri capolavori nel cuore del centro: la Fontana dei Quattro Fiumi (simbolo dei continenti allora conosciuti) a Piazza Navona e la Barcaccia ai piedi della mitica scalinata di Piazza di Spagna. Va reso merito all’ente proprietario del cinema che a fronte di un progetto imprenditoriale di trasformazione in multisala ha dato priorità ai resti archeologici optando per altra soluzione che comprende la sistemazione degli scavi, rendendoli fruibili con un sistema di passerelle e un piccolo antiquarium dei ritrovamenti (anfore, monete, sculture, vasi). Attraverso questi reperti e tutta la stratigrafia delle differenti epoche del tessuto urbano venuto in luce gli archeologi possono aggiungere tasselli alla comprensione del passato, che noi ora possiamo immaginare. Ecco quello che non si vede, a Roma si cammina sull’ultimo strato di una “millefoglie”; questa definizione non è mia ma di Alberto Angela, talmente calzante da essere imperdibile nel caso non guardaste il documentario. Come in questo famoso dolce, come si fa a mangiarlo tenendo gli strati separati…? bisogna morderlo tutto, è così che a Roma passato e presente convivono e si mescolano allegramente! Un esempio? Se avete già gettato la monetina e quindi state tornando a Roma, questa volta fate cosi: dopo aver osservato Oceano sul suo cocchio con altri occhi, andate in Vicolo del Puttarello e scendete a visitare l’area sotterranea per ascoltare il suono antico e attualissimo dell’acqua Virgo che scorre, poi fate una salto al palazzo della nuova Rinascente di via del Tritone, tempio dello shopping di lusso, e scendete al piano -1 dove tra le avanguardie del design e della profumeria troverete anche gli antichi archi dell’acquedotto distrutto, in una zona di osservazione allestita con una proiezione descrittiva. Poi però risalite fino all’ultimo piano dove vi aspetta una vista mozzafiato sui tetti di Roma, per un brunch o un caffè. P.S. Dimenticavo… e le monetine? La raccolta ammonta a circa 3.000 euro al giorno, chevengono distribuiti ai più bisognosi attraverso la Caritas in accordo con il Comune di Roma (ma in passato non era raro vedere pescatori amatoriali all’alba…). Per saperne di più: https://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_medioevale_e_moderna/fontane/fontana_di_trevi_mostra_dell_acqua_vergine https://www.vicuscaprarius.com/area-archeologica/ https://www.romasegreta.it/rubriche/acquedotti.html#acqua6
- Giochi di Grammatica e Vocabolario (Livello A1/A2)
Cruciverba: Passato prossimo e Imperfetto Istruzioni: Compila il cruciverba con la forma corretta del verbo (passato prossimo o imperfetto). Parole nascoste: Vocabolario della salute Istruzioni: Trova il numero più grande possibile di parole legate alla salute nella griglia. Le parole possono essere in orizzontale, verticale o diagonale e possono essere scritte in avanti o all’indietro. Soluzioni ORIZZONTALI 1. sono andato 3. studiava 5. eravamo 7. leggeva 9. vivevamo 11. mangiava 13. abbiamo fatto VERTICALI 2. giocavo 4. abbiamo visitato 6. non sono usciti 8. mi sono alzato 10. avete comprato 12. prendevo 14. sono partiti 15. guardavate PAROLE NASCOSTE FARMACO OSPEDALE MEDICO INFERMIERE FEBBRE TOSSE VACCINO TERMOMETRO MALATO DOLORE AMBULANZA PILLOLA
- Qui Roma...
Città eterna ed eternamente sottosopra. Eh sì, perché l’eternità di Roma è soprattutto "sotto”, ma è “sopra” che si vive. Quel magnifico “sopra” che rimanda continuamente al “sotto”. Impossibile dimenticarlo, perché sulla storia ci camminiamo e inciampiamo ad ogni passo. In tutto il centro storico si cammina sui “sanpietrini”, che per rimetterli a posto è un bel problema, non basta come sulle altre strade una stesa di asfalto, ma va smontato tutto e rifatto con una tecnica antica di secoli. Saecula et saeculorum ... amen. Ci teniamo le buche. Camminando per Roma dovremmo guardare dove mettiamo i piedi, ma come si fa a non alzare lo sguardo... Madonne ad ogni angolo di palazzo e cupole ovunque! Viviamo immersi nella storia e nell’arte, continuamente indietro con il presente ed anche con il futuro, rispetto alle altre capitali, perché si sa che da quelle buche possono uscire tesori, quindi si scava; e scaviamo... scaviamo... per poi fermarci e richiudere tutto (riportare alla luce ha dei costi, a volte insostenibili), oppure cambiare direzione perché di lì proprio non si può passare senza distruggere storia e arte di secoli. Viviamo in una terra di mezzo, in una condizione temporale che deve dialogare tra passato, presente e futuro conciliando tre esigenze diverse: il rispetto per un patrimonio che non è solo nostro ma mondiale, la velocità dei tempi attuali, le nuove direzioni da prendere tenendo conto del futuro. Questo è il delicato e complicato compito del Ministero della Cultura, che accettando la sfida di conciliare queste tre dimensioni sta procedendo con approccio innovativo a realizzare un nuovo modo di vivere la Capitale e di raccontare la sua storia. I principi informatori dell’operazione: a) conoscenza b) valorizzazione c) fruizione pubblica del patrimonio storico, soprattutto questo. È così che sono state restituite al pubblico aree fino ad oggi chiuse, rimaste incolte o utilizzate come depositi; è così che sono state aperte casse di reperti che giacevano nei magazzini dei vari istituti culturali, catalogati e infine esposti. La più recente inaugurazione del “Parco Archeologico del Celio” è emblematica di questa nuova direzione e fa parte di un vasto progetto di valorizzazione dell’intera area, uno dei sette colli del nucleo storico di Roma, appunto Il Celio. Qui sono stati trasportati e riorganizzati molti reperti archeologici, una sorprendente collezione di materiali epigrafici e architettonici provenienti dagli scavi di Roma di fine Ottocento, effettuati per le nuove costruzioni seguite alla proclamazione di Roma Capitale d’Italia. Sono frammenti che attraverso il marmo ci raccontano molto di quelle che erano le tecniche, gli stili e con loro le mode, le usanze e l’organizzazione della società romana. Il tutto esposto in uno scenario mozzafiato, con il Colosseo sullo sfondo. Ma non solo, all’interno del Parco è allestito il museo che custodisce i frammenti rimasti della celebre Forma Urbis Romae , la gigantesca pianta marmorea della Roma antica incisa tra il 203 e il 211 d.C. sotto l’imperatore Settimio Severo. Gigantesca perché occupava uno spazio di circa 18 metri per 13, su 150 lastre di marmo applicate a parete, di un edificio pubblico, con perni di ferro. Si tratta di una delle più rare e importanti testimonianze della città antica. Questa nostra prima “passeggiata romana” è l’inizio di un percorso di scoperta nella Roma di oggi tra vita di superficie e storia nel sottosuolo, e quale punto di partenza è migliore di una mappa? Non è certo di facile consultazione una mappa marmorea, soprattutto se ridotta in frammenti di marmo ritrovati qui e là nel tempo (dai frati scavando un orto o lungo le sponde del Tevere costruendo i nuovi argini o nel giardino di una villa nobiliare); un documento quindi che, per ingombro e condizioni frammentarie, si presta poco a una comprensione immediata. In pratica un grande puzzle, incompleto e ridotto in pezzi ancora più piccoli, di cui non si ha il foglio di istruzioni; si è quindi fatto ricorso ad un altro importante documento successivo sovrapponendoli, come base planimetrica, alla Pianta Grande di Giovanni Battista Nolli (il “celebre geometra”) del 1748. Le due mappe quindi, i due grandi momenti della cartografia romana, marmorea e cartacea, riportate alla stessa scala e sovrapposte sono infine esposte nel museo in modo inedito, cioè calpestabile! Nel corso degli ultimi 250 anni il centro storico di Roma è cambiato ben poco nei suoi siti essenziali, perciò la pianta del Nolli rimane ancora una delle migliori fonti per comprendere anche la città contemporanea e, camminando sul pavimento in vetro della sala principale del museo (150 lastre come quelle di cui era composta la mappa), possiamo quindi riconoscere il Colosseo e tanti altri “landmark” dell’antica capitale così come dell’attuale, come appunto in una passeggiata romana! Per saperne di più: Cenni storici Forma Urbis Cenni storici Parco Archeologico del Celio
- Qui Roma… "Uomini siate, e non pecore matte” (Paradiso, Canto V)
Mala tempora currunt … guerre, speculazioni incontrollate, genocidi… C’è bisogno di un nuovo umanesimo, c’è bisogno di una umanità nuova. È l’allarme che risuona ovunque e forse da sempre, perché proprio quando l’uomo sembra in gran corsa per il progresso… perde la consapevolezza di se stesso finché arriva a perdersi. Giubileo, tempo di quaresima, Porta Santa da attraversare, San Pietro centro della Cristianità, Roma brulica di turisti e di pellegrini… tra questi c’è anche Dante con una platea di giovani che cercano di capire meglio il suo messaggio, invece che subirlo come materia scolastica che può sembrare obsoleta e invece è quanto mai attuale. La quaresima richiama il combattimento spirituale ed è proprio nella Settimana Santa che precede la Pasqua del 1300, durante il primo giubileo della storia dell’umanità, che Dante scrisse del suo turbamento. Dante ci insegna quindi come far morire l’uomo vecchio e far rinascere l’uomo nuovo, che è poi il vero significato del Giubileo al di là di tutti i riti di purificazione e buoni propositi. Dante parla di speranza e conclude ciascuna delle tre cantiche con la parola “stelle”. Non c’è inferno e non c’è selva dai quali non si possa uscire “a riveder le stelle”. Questo è il messaggio della sua “commedia” molto umana, resa “divina” da cento canti di poesia sublime: un personale pellegrinaggio condotto tra la fede (Beatrice) e la ragione (Virgilio), un cammino interiore che ha vissuto lui stesso e che propone all’uomo di ogni generazione per aiutarlo a passare dallo stato di miseria interiore allo stato di felicità. Perché l’uomo è sempre lo stesso; non importa quanti master abbia fatto, di fronte alla vita non ne sa mai abbastanza. La speranza è il tema del Giubileo 2025, se ne sente il bisogno in questo momento storico, in modo particolare ragazzi giovani che lamentano proprio una fatica a sperare mentre è nelle loro mani il futuro. In quel primo Giubileo istituito da Papa Bonifacio VIII, sappiamo che Dante era a Roma e da qui Papa Francesco nel 2021, settecentesimo anniversario della sua morte, lo ha richiamato a noi quale sommo “Pellegrino di Speranza”, sollecitando a rendere Dante accessibile e attraente non solo a studenti e studiosi ma anche a tutti coloro che volendo realizzare in pienezza la propria esistenza sono ansiosi di rispondere alle domande interiori per vivere il proprio itinerario personale in maniera consapevole. Raccogliendo questa indicazione del Papa, in questa quaresima giubilare il Dicastero per l’Evangelizzazione ha voluto organizzare una particolare mostra che la Società Dante Alighieri ha patrocinato, dal titolo graffiante: “Uomini siate, e non pecore matte”; un percorso espositivo che accostando testi poetici, commento e illustrazioni, propone un itinerario antologico dal punto di vista del tema della speranza, attraverso una selezione di sette episodi fra i più significativi dell'inferno, sette del Purgatorio, sette del Paradiso. Ma la particolarità di questa mostra, oltre che nella qualità dei contenuti, sta nel fatto che pone al centro i giovani; le guide che accompagnano i visitatori in questo percorso sono, infatti, studenti universitari provenienti dalla straordinaria realtà dell’associazione giovanile Cento Canti (cento studenti, ognuno conosce a memoria un canto, l’intera associazione come una sorta di Divina Commedia vivente!) che ha preso vita da un educatore di eccellenza, studioso e divulgatore di Dante, il Prof. Franco Nembrini, curatore della mostra e autore dei contenuti educazionali. La mostra è allestita nel chiostro di San Salvatore in Lauro, Chiesa Giubilare, a due passi da una delle piazze più iconiche di Roma, Piazza Navona colma di turisti. Vi si accede da un antico portone in legno oltre il quale c’è fresco e ombra in questa inaspettata giornata di sole pieno e caldo cui non siamo preparati dopo tanta pioggia. Ad accoglierci troviamo subito Dante e Beatrice… lei che emerge dal bassorilievo a tutta parete e lui che si preme la mano sul cuore che batte forte, tra l’emozione dell’incontro con l’amata che ha perso e la paura della selva in cui si è perso. Lui con i piedi per terra, lei che indica la via per il paradiso. Gruppo scultoreo “El Dante” dello scultore Adelfo Galli, qui in mostra per concessione di Papa Francesco cui è stato donato. Entrati nel chiostro il cammino è scandito dagli antichi archi e non potevano che essere archi virtuali a scandire con i loro colori simbolici il passaggio tra le cantiche, ogni passo è scandito dai versi di Dante e dalle immagini dell’artista Gabriele Dell’Otto, noto nel mondo e calato nell’universo dei giovani in quanto fumettista e illustratore delle celebri copertine dei supereroi Marvel. Tutte e tre le cantiche quindi in una sola mostra, scaturita da un sistema di mostre ove dal 2021 ad oggi cento studenti dopo aver studiato il testo e partecipato alla formazione con il Prof. Nembrini accompagnano i visitatori in questo pellegrinaggio interiore sulle orme di Dante, attraverso inferno purgatorio e paradiso, fino a riveder le stelle. Come Nembrini stesso spiega in un breve video: “i giovani se sfidati ad una proposta alta e coinvolgente rispondono con l’entusiasmo e la baldanza che li caratterizza”. L’intento di questo nuovo sistema di mostre è quello di rivoluzionare il rapporto con la cultura, di rivisitarlo non più come oggetto storico in un museo, perché non è semplicemente interessante capire l’autore, ma come dice il termine “interesse” ( inter = dentro, esse = essere) è importante perché ci siamo dentro noi… il punto non è che noi capiamo Dante, ma capiamo che Dante capisce noi. Mantenere vivo questo nuovo tipo di rapporto con Dante significa accostarsi all'arte non solo in una dimensione percettiva, attraverso i sensi, ma riuscire a farla vivere in maniera più profonda, come questi studenti e in un modo che possa essere vissuto anche da altra gente e anche da altre prospettive, anche più tecniche, anche più scientifiche, che però si dovrebbero riunire una volta di più con l'umano, non separarsi. Questo miracolo di umanizzazione è quello che con la passione negli occhi mi ha trasmesso Manuel Quell'Oller, la mia guida, giovane universitario di Verona che ringrazio di cuore perché per la prima volta nella vita, nonostante la mia formazione sia avvenuta negli studi classici, mi ha fatto emozionare nel riconoscermi in Dante. Rifletto che forse proprio il fatto che lui è della facoltà di Lettere antiche incarna questa funzione di collegamento tra passato e presente e mi fa sentire che tutto quello che è passato è anche attuale. Ascoltare tutto questo dalle parole di un giovane me lo fa sentire vero, se le stesse cose che ha detto lui le avesse dette un cattedratico o una guida turistica diciamo che sarebbe stata “conoscenza”, lui le ha dette proprio perché le ha “sentite”… e le ha fatte sentire anche a me. Esco sulla piazza inondata dal sole ed è come se tornassi alla luce da lontano, da un cammino breve ma intenso nel chiostro torno alla vita normale, quella dei bimbi che giocano, delle mamme con i passeggini, dei cani a passeggio, degli anziani che discutono di questa epoca matta, tutto quello che accade in una piazza di quartiere. Camminando per Roma l’esperienza migliore è sempre quella di uscire dai percorsi scontati, dai fiumi di persone che vanno tutte nella stessa direzione verso i luoghi iconici, perché ogni piccola piazza può offrire sorprese. La mia sorpresa oggi è stata questa, sono entrata pensando di contemplare arte visiva e poesia e invece sono scesa in me stessa. Grazie Dante, buona Pasqua di speranza a tutti voi! Per saperne di più Video introduttivo alla mostra del Prof. Nembrini, in italiano e in inglese: https://www.youtube.com/watch?v=QmwLazmVtUw&ab_channel=InTerrisQuotidianodigitale https://www.franconembrini.it/centocanti/ Progetto scultoreo “El Dante” di Adelfo Galli: https://dantegiubileo2025.com/wp-content/uploads/2025/02/el-dante-web.pdf Gabriele Dell’Otto spiega la sua creatività grafica: https://www.gabrieledellotto.it/video-gallery/ Programma televisivo in 34 puntate, la Divina Commedia commentata dal Prof. Nembrini: https://www.tv2000.it/blog/programma/nel-mezzo-del-cammin/
- Qui Roma... Se le pietre potessero parlare...!
È un modo di dire, ma a Roma succede davvero. Come...? Quando...? Cosa...? Chi...? È una storia curiosa questa, una storia romana, un lato insolito della Capitale. Roma è un luogo dove la storia ufficiale si intreccia alla vita delle persone ed è difficile individuare i confini e scinderle; questa storia ne è la dimostrazione. Partiamo da loro, dalle pietre, o meglio da alcuni marmi scolpiti, statue di epoche diverse ritrovate in circostanze diverse, in quel secolo d’oro di riscoperta del mondo antico e di grandi scavi archeologici che fu il Rinascimento; alcune di queste statue divennero e sono tuttora “le statue parlanti di Roma”. Personaggi che sono tornati a vivere, a prescindere dalla loro vera storia, ribattezzati con il soprannome che gli ha dato il popolo, del quale sono divenuti portavoce quando in quello stesso periodo storico il potere era particolarmente opprimente (era la Roma del “Papa-Re” che deteneva sia il potere spirituale sia quello temporale), non esisteva la libertà di espressione e dissentire significava rischiare la vita... Loro furono la vera Vox Populi! Come? Nottetempo i più arditi gli appendevano al collo o poggiavano ai piedi foglietti anonimi contenenti satire in versi per farsi beffe dei personaggi pubblici più importanti, appartenenti alla nobiltà romana o addirittura alla corte papale, o contro chiunque meritasse il biasimo per il cattivo operato o azioni immorali. Attraverso le statue parlanti la critica politica anonima si diffuse per la prima volta su larga scala. Quando la città si svegliava gli abitanti del quartiere leggevano, la voce correva subito di bocca in bocca e presto tutta la città sapeva cosa ne pensava il popolo di ciò che stava accadendo; si esprimeva così, con tono di sfida e di provocazione, il malcontento popolare nei confronti del potere e l’avversione verso la corruzione e l’arroganza dei suoi rappresentanti. Queste nostre statue sono sei, ognuna conosciuta con il suo soprannome la cui provenienza resta incerta : Madama Lucrezia , unica rappresentante femminile, Marforio , il Babuino, il Facchino, l’Abate Luigi e... Pasquino , il capobanda! Ognuno di loro diceva la sua e questa banda di sei liberi pensatori di pietra dalla lingua lunga è conosciuta come il Congresso degli Arguti. Fin qui potrebbe considerarsi “folklore”, perché ancora non abbiamo parlato dello stile di questi messaggi, che ci racconta molto del carattere dei romani; da un lato indomito nei confronti del potere dall’altro ironico e scanzonato. Hanno sempre dimostrato la loro insofferenza verso i soprusi con un umorismo mordace e sferzante. La satira è da sempre un tratto tipico dei romani; come disse Giovenale, il più prolifico in questo genere: “satira tota nostra es” , nel senso “siamo noi romani ad averla inventata” e di fatto i Greci non ce l’hanno. Fu così che, mentre i Greci divennero famosi per orazioni e tragedie, quindi per una forma letteraria colta, a Roma ebbe un certo successo una letteratura più caustica, dissacrante e impertinente che in questo caso, con le statue parlanti, diede vita ad un vero e proprio genere letterario. Poiché tutto partì da Pasquino queste uscite on air presero il nome di “Pasquinate”. L’origine del suo soprannome è ricondubile forse a un barbiere o sarto della zona che serviva nobili e prelati, ascoltava i pettegolezzi e li faceva circolare con battute pungenti, o forse al periodo pasquale in cui comparvero le prime affissioni. Tutto iniziò nel 1501, nei pressi di Piazza Navona, nella zona più popolosa della città dove passavano le processioni e le sfilate di ricchi e potenti, ad un passo dall’Archiginnasio della Sapienza (la prima Università di Roma), sull’angolo del palazzo nobiliare ex Orsini appena acquistato dal Cardinale Oliviero Carafa, frontale alla piazza; quella piazza frequentata da librai, scrittori e artisti, che allora si chiamava Piazza di Parione (il nome del rione) e oggi si chiama invece Piazza di Pasquino. Questo dice tutto... Queste tre condizioni geografico-temporali, che apparentemente sarebbe superfluo raccontare, furono la miscela esplosiva che diede fuoco alla miccia. Il Cardinale fece risistemare la piazza su cui affacciava il palazzo e fece collocare su quell’angolo bene in vista una statua ritrovata nei pressi (che prima di allora era stata utilizzata come marmo da pavimentazione stradale, voltata a faccia in giù, di schiena!) restituendola alla visione pubblica come gesto di magnanimità e di prestigio. Contemporaneamente la vicina Università organizzava certami, gare poetiche, tra gli studenti di letteratura e di retorica, arti che comportavano un uso letterario importante della parola, i quali prevedevano l’affissione pubblica dei componimenti in giorni particolari e luoghi deputati a questa funzione. Uno di questi era proprio il basamento di palazzo Carafa, cinto di sedili marmorei che per l’occasione venivano ricoperti in velluto e con l‘arrivo della statua si cominciò a vestirla con abiti togati o come un personaggio del mondo antico pertinente al tema assegnato cui si dovevano ispirare. Fu quello il momento in cui i due livelli della storia si intrecciarono per sempre, fino ai giorni nostri. Il popolo del quartiere non si fece sfuggire l’occasione... Colse al volo l’ispirazione e prese ad esprimersi “poeticamente” affiggendo i propri versi alla statua che divenne il luogo dove il gusto della satira trovò la sua bacheca ideale; del resto, si trovava proprio sulla via papale! Il tono provocatorio e di sfida irritava non poco i destinatari e nel tentativo di fermare questa pratica furono emesse leggi severe, la statua venne messa sotto sorveglianza e si narra che vi fu un Papa (Papa Adriano VI, 1522-1523) che minacciò di gettare Pasquino nel Tevere, ma fu ricondotto a più miti consigli, sapendo bene che le critiche non si sarebbero fermate ma sarebbero diventate ancora più aspre. Le Pasquinate venivano sia dal popolo che dalle persone colte, con stile ora pungente e arguto, ora volgare e maldicente; non furono mai semplici invettive ma veri componimenti poetici, in dialetto, in italiano aulico o in latino, sempre pervasi dal tipico sarcasmo romanesco. Si ha persino notizia di Pasquinate commissionate a poeti professionisti (Pietro Aretino!) e il paradosso fu che i committenti furono a volte prelati e nobili che volevano diffamare coloro che detenevano il potere per subentrare ad essi. Insomma, divennero mezzi di propaganda elettorale! Nel frattempo, Pasquino non era più solo e il gioco (neanche tanto...) si fece più divertente perché le statue iniziarono a parlare tra loro. Un esempio? Famoso è il “botta e risposta” in occasione delle razzie di tesori perpetrate a Roma da Napoleone, all’inizio dell’Ottocento: Pasquino buttava lì dal Parione una domanda (compariva su di lui un foglio): “È vero che i Francesi sono tutti ladri?” e Marforio rispondeva dal Campidoglio: “Tutti no, ma Bona Parte”. Marforio (da Martis Forum , poiché la statua fu ritrovata nei pressi del tempio di Marte, nel Foro romano ) era considerato l’interlocutore e la "spalla" di Pasquino (nel linguaggio romano “il compare”, suo complice) mentre il Babuino dal rione Campo Marzio entrò in competizione e ci fu un momento in cui si accennò a chiamarle “Babuinate”, ma il primato del Parione rimase indiscusso. Invece, l‘Abate Luigi (dal nome forse del sagrestano della vicina chiesa del Sudario, noto per lo spirito arguto) divenne il simbolo di uno specifico malcostume, la personificazione del camaleonte politico, a causa della sua testa più volte rubata e sostituita con altre sempre diverse (mai la sua quindi...) provenienti dai depositi comunali; parlò per l’ultima volta nel 1966 con questi versi in dialetto romanesco: «O tu che m’arubbasti la capoccia vedi d’ariportalla immantinente sinnò, vòi véde? come fusse gnente me manneno ar Governo. E ciò me scoccia». (“Tu che mi hai rubato la testa, riportamela subito, altrimenti può succedere facilmente che mi mandino al Governo. E questo non mi piacerebbe”). Una delle Pasquinate più celebri, tanto da entrare nel linguaggio comune, fu indirizzata a Papa Urbano VIII della nobile famiglia Barberini, che fece spogliare la copertura bronzea del Pantheon per la realizzazione del baldacchino del Bernini nella Basilica di San Pietro e di 80 cannoni per Castel Sant’Angelo: "Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini" ( "Quello che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini”). Si potrebbe proseguire all’infinito, sono tantissime e se le conosciamo tutte è perché c’è sempre qualcuno che si prende la briga di raccogliere tutti i foglietti e consegnare l’opera all’editoria. Queste raccolte, ovvio… si chiamano Pasquilli . La produzione delle Pasquinate è durata ininterrottamente fino alla caduta del potere temporale dei papi e in forme più blande e saltuarie è proseguita fino ai giorni nostri, alternando momenti in cui le statue sembravano aver perso la parola... ma nel corso della storia nessuno è sfuggito al severo ed implacabile giudizio delle statue parlanti, né Mussolini né Berlusconi! Ancora oggi, nell’era dei media digitali, il basamento di Pasquino continua ad essere coperto di messaggi ironici e provocatori. A pensarci bene, le Pasquinate sono l’equivalente degli attuali “meme” perché avviarono una comunicazione condivisa, indipendente e democratica, anticipando di fatto il principio che ispira i moderni social network. P.S. Un ringraziamento a Maria, angelo sulla mia via... senza la quale non avrei fotografato Marforio! Per saperne di più, su ognuno di loro: https://www.sovraintendenzaroma.it/content/statua-detta-del-pasquino https://www.sovraintendenzaroma.it/content/statua-detta-di-marforio https://www.sovraintendenzaroma.it/content/fontana-del-facchino-0 https://www.sovraintendenzaroma.it/content/statua-detta-dell%E2%80%99abate-luigi https://www.sovraintendenzaroma.it/content/statua-detta-di-madama-lucrezia https://www.sovraintendenzaroma.it/i_luoghi/roma_medioevale_e_moderna/fontane/fontana_del_babuino
- Pronomi combinati (B1)
Completa i dialoghi scegliendo il pronome combinato corretto: — Hai dato il libro a Marco? — Sì, _______ ieri. A) me lo B) gliel’ho dato C) te lo — Vuoi un passaggio? — Grazie, _______ domani. A) te lo do B) me lo dai C) me lo dai tu — Puoi portare le chiavi a Sara? — Sì, _______ subito. A) gliele porto B) me le porto C) te le porto — Ti serve il documento? — Sì, _______ adesso? A) me lo dai B) glielo dai C) te lo dai — Hai comprato il pane per noi? — Certo, _______ preso stamattina. A) ce l’ho B) ve l’ho C) ve l’ho — I tuoi genitori ti hanno dato i soldi? — Sì, _______ ieri sera. A) glieli hanno dati B) te li hanno dati C) me li hanno dati — Gli puoi dire la verità? — No, non _______ dire adesso. A) glielo posso B) posso glielo C) gliela posso — Mi puoi prestare la bici? — Sì, _______ domani. A) ve la do B) te la presto C) gliela presto — Hai dato la lettera a Lucia? — Sì, _______ consegnata ieri. A) gliel’ho B) me l’ho C) te l’ho — Mi hai comprato le scarpe? — Certo, _______ ordinate online. A) te le ho B) me le ho C) gliele ho — Quando ci dai i biglietti? — _______ porto stasera. A) Ce li B) Ve li C) Glieli — Chi ti ha dato i compiti? — La professoressa _______ ha mandati via email. A) te li B) me li C) glieli — Mi invii il suo numero di telefono? — Un attimo, _______ giro. A) te lo B) me lo C) glielo — Chi dà i libri ai ragazzi? — La maestra _______ dà ogni lunedì. A) glieli B) me li C) te li — Puoi mandare le foto a me e a Luca? — Certo, _______ invio stasera. A) gliele B) ce le C) ve le — Hai scritto il messaggio a Carla? — Sì, _______ mandato subito. A) me l’ho B) te l’ho C) gliel’ho —Quando dai il regalo di Natale a Marco? —_______ do il 23 dicembre. A) te lo B) glielo C) ce lo — Ci puoi preparare il caffè? — Certo, _______ faccio subito. A) ve lo B) ce lo C) glielo — Hai preso i libri per i bambini? — Sì, _______ messi nello zaino. A) me li ho B) glieli ho C) me li ho — Quando ci racconti del tuo viaggio in Italia? — _______ parlo domani. A) Gliela B) Glielo C) Ve ne ------------------------------------------ Soluzioni: 1B, 2B, 3A, 4A, 5A, 6C, 7C, 8B, 9A, 10A, 11B, 12B, 13A, 14A, 15C, 16C, 17B, 18A, 19B, 20C. Per gli esercizi precedenti, clicca: Italian Exercises
- Sergio Strizzi e lo sguardo oltre il set
Roma, in estate, non concede tregua. L’asfalto ribolle, le piazze si gonfiano di turisti e gli eventi culturali si rincorrono come onde. Presentazioni di libri, mostre, arene di cinema all’aperto, concerti, festival. Le code davanti ai musei sono parte del paesaggio urbano: al Palazzo delle Esposizioni, per esempio, le file si allungano per ore davanti alla retrospettiva su Dolce & Gabbana, un caleidoscopio di abiti e lustrini che calamita folle di curiosi. Ma io scelgo un’altra strada. Non l’ingresso principale, non le scale gremite di visitatori. Entro da una porta laterale, quasi nascosta, che conduce a un piccolo spazio, Sala Fontana, dove dal 10 luglio al 10 agosto 2025 è stata allestita la mostra Sergio Strizzi. Lo sguardo oltre il set. Chi era Sergio Strizzi? Un fotografo di scena, l’occhio invisibile che ha saputo cogliere il cinema italiano dal dopoguerra agli anni Novanta, documentando con delicatezza e rigore le atmosfere dei set e i volti che li abitavano. C’è un istante, durante le riprese, in cui il rumore si ferma. Non è silenzio vero – i tecnici si muovono, i riflettori scaldano, i truccatori sistemano un volto – ma qualcosa sospende il respiro collettivo. Strizzi non fotografa il glamour, ma la soglia. Quell’attimo in cui l’attore non è più personaggio e non è ancora se stesso: un territorio fragile, quasi proibito, in cui l’umanità scivola fuori dal copione. È qui che il cinema rivela il suo doppio: quello che vediamo sullo schermo e quello che resta fuori, negli interstizi, dove forse si nasconde la verità. Guardare queste immagini oggi, in un’epoca in cui tutto è posa e autopromozione, significa ricordare che esisteva un tempo in cui lo sguardo era discreto, paziente, capace di attendere il momento giusto invece di produrlo a forza. Strizzi ci ricorda che la bellezza, come la verità, non si impone: si lascia sorprendere. Le fotografie raccolte in mostra – circa sessanta, molte inedite – sono in gran parte dedicate a Monica Vitti e molte sono scattate nella Torre Galfa di Milano, appena costruita, simbolo del boom economico. Uno spazio che è esso stesso protagonista: le grandi vetrate, le linee severe, i pavimenti lucidi come specchi. Tutto parla di modernità, di un’Italia che si affaccia al futuro. E in mezzo, Monica. Non la star intoccabile, ma una donna giovane, in bilico tra leggerezza e inquietudine, che esplora lo spazio come fosse un territorio nuovo. Si siede, si sdraia, si allunga, si piega. Sorride e si perde. Gioca con una collana come fosse un filo che la lega all’aria. Guardandole oggi, quelle immagini hanno qualcosa di vertiginoso. Non raccontano una posa studiata, ma un corpo che cerca una nuova grammatica: come se il femminile italiano del dopoguerra trovasse, proprio lì, la possibilità di essere altro. Non la donna “oggetto” del cinema glamour, non la diva distante, ma una presenza viva, fragile e potente, che occupa lo spazio urbano e lo trasforma. Per ottenere tutto questo, serve uno sguardo che non invada. Strizzi lo possiede. Il fotografo non interrompe, non forza: attende. I suoi scatti non sono “rubati”, ma accolti. Vitti non sembra mai in posa, sembra piuttosto in dialogo silenzioso con chi la ritrae. C’è una fiducia reciproca, un’intesa che consente di oltrepassare il confine tra documento e rivelazione. È qui che Strizzi si distingue da tanti altri fotografi di scena. Non registra un’immagine da conservare, non archivia un istante per i giornali. Cattura l’invisibile: quel lampo che vive tra una mossa e l’altra, tra il dentro e il fuori. Un ladro gentile, lo hanno definito. E davvero è così: non porta via nulla, se non la verità fragile dell’attimo. Guardando le immagini, si ha l’impressione di assistere alla nascita di una femminilità diversa. Non più solo musa o attrice, non più solo corpo da filmare. Vitti diventa soggetto attivo, presenza che inventa un modo di abitare lo spazio. È la donna che esplora, che gioca, che si concede di cadere e di rialzarsi. La sua leggerezza non è frivola: è un modo per sfidare la gravità delle convenzioni. In questo senso, Strizzi non fotografa Monica Vitti: fotografa un passaggio culturale. Quello di un Paese che dalla provincia contadina si affacciava alla metropoli moderna, e di un cinema che smetteva di raccontare solo storie e cominciava a interrogarsi sul senso stesso delle immagini. L’aspetto più attuale di questa mostra non è però solo storico o cinematografico: è etico. Strizzi ci ricorda che guardare non significa possedere. Che l’immagine può nascere dalla discrezione e dalla fiducia, non dall’invadenza. È una lezione preziosa in un tempo saturo di fotografie costruite per mostrarsi, in cui ogni gesto è performativo. Qui invece la fotografia restituisce la verità di un incontro, il valore di un istante condiviso. Guardare, oggi come allora, è un atto politico. È scegliere la delicatezza invece della conquista, la vicinanza invece della distanza. Quando si esce dalla sala del Palazzo delle Esposizioni, si torna nel rumore della città. Le file davanti alla moda continuano, i turisti si accalcano, la Roma estiva scorre con la sua vitalità. Eppure, chi ha attraversato quella porta laterale porta con sé una traccia diversa: il silenzio sospeso di Monica Vitti sopra Milano, la grazia di un gesto che non voleva durare e invece è rimasto per sempre.
- Bufale e Fake News – Lettura e comprensione del testo – Livello A2-B1
Leggi il testo QUI e completa gli esercizi di comprensione e vocabolario. Fake News: riconoscerle, diffondere consapevolezza e contrastare la disinformazione Viviamo in un’epoca in cui le informazioni viaggiano alla velocità della luce. Un semplice post sui social può raggiungere migliaia, se non milioni di persone, nel giro di pochi minuti. Questo è un vantaggio straordinario, ma anche un’arma a doppio taglio: la disinformazione si diffonde con la stessa rapidità. Le bufale, o notizie false, sono diventate un problema serio, capace di influenzare l’opinione pubblica, creare confusione e persino generare panico. Basta un titolo sensazionalistico, un’immagine fuori contesto o una notizia parzialmente falsa per ingannare il lettore e portarlo a credere a qualcosa che non ha fondamento. La questione non riguarda solo i social media: anche siti apparentemente affidabili possono diffondere contenuti inesatti. La domanda che dobbiamo porci è: come possiamo difenderci dalle fake news? Come riconoscere le fake news Riconoscere una fake news non è sempre semplice, ma ci sono alcuni segnali che ci possono aiutare. Il primo passo è verificare la fonte. Se una notizia proviene da una testata giornalistica riconosciuta e affidabile, le probabilità che sia vera sono molto alte. Al contrario, se l’articolo arriva da un blog sconosciuto o da un sito con un nome strano, è meglio approfondire. Anche l’URL può fornire indizi importanti. I siti di fake news spesso cercano di imitare quelli ufficiali, cambiando piccoli dettagli nell’indirizzo web, come aggiungere un numero o una parola in più. Inoltre, se il sito è pieno di pubblicità invadenti, pop-up e titoli scritti in maiuscolo con mille punti esclamativi, è il caso di farsi qualche domanda. Un altro elemento da considerare è il tono della notizia. Le fake news puntano sulle emozioni forti: rabbia, paura, indignazione. Se un titolo ti fa sentire subito arrabbiato o scioccato, fermati un attimo e verifica se la notizia è riportata anche da altre fonti affidabili. E poi ci sono le immagini. Spesso, per rendere una notizia più credibile, vengono usate foto decontestualizzate o addirittura modificate. Uno strumento utile è la ricerca inversa delle immagini su Google: basta caricare una foto per scoprire da dove proviene realmente e se è stata utilizzata in un altro contesto. Come combattere la diffusione Una volta che abbiamo imparato a riconoscere le fake news, il passo successivo è fermarne la diffusione. E qui entra in gioco la responsabilità di ognuno di noi. Quante volte ci è capitato di condividere un articolo solo perché il titolo sembrava interessante, senza nemmeno leggerlo? È proprio così che le notizie false si diffondono. Prima di condividere, quindi, fermiamoci un attimo e facciamo un rapido controllo. Verificare la fonte, cercare conferme su altri siti affidabili e leggere l’intero articolo (non solo il titolo!) sono azioni semplici ma fondamentali. E se scopriamo che si tratta di una fake news? Possiamo segnalarla: molte piattaforme social offrono questa possibilità e agire in questo modo aiuta a limitare la visibilità di contenuti falsi. Un altro modo per contrastare la disinformazione è parlarne con gli altri. Se un amico o un familiare condivide una notizia falsa, invece di attaccarlo, possiamo aiutarlo a capire perché quell’informazione è scorretta. Spesso, chi diffonde fake news non lo fa con cattive intenzioni, ma semplicemente perché non ha verificato i fatti. L’educazione mediatica gioca un ruolo fondamentale. Dovremmo tutti imparare a essere più critici nei confronti delle notizie che leggiamo, e questo dovrebbe partire dalle scuole. Se insegnassimo ai ragazzi a distinguere una fonte affidabile da una dubbia, potremmo ridurre enormemente il problema in futuro. Anche le istituzioni hanno un ruolo importante. Alcuni governi hanno già introdotto leggi per contrastare la diffusione di fake news, soprattutto in settori delicati come la salute e la sicurezza pubblica. Tuttavia, è un equilibrio delicato: combattere la disinformazione non deve mai trasformarsi in una limitazione della libertà di espressione. Alla fine, il miglior antidoto alle fake news è il pensiero critico. Non dobbiamo credere ciecamente a tutto ciò che leggiamo, ma imparare a porci domande, a cercare prove e a non lasciarci trasportare dalle emozioni. Se tutti adottassimo questo approccio, la disinformazione perderebbe gran parte della sua forza. Perché la verità ha un potere enorme, ma spetta a noi difenderla. Questionario di Comprensione Leggi attentamente le seguenti affermazioni e indica se sono vere (V) o false (F) secondo il testo: 1. Le notizie false si diffondono lentamente rispetto alle notizie vere. ( ) 2. Anche siti apparentemente affidabili possono pubblicare contenuti inesatti. ( ) 3. Le fake news sono sempre facili da riconoscere. ( ) 4. I siti di fake news spesso cercano di imitare quelli ufficiali cambiando piccoli dettagli nell'indirizzo web. ( ) 5. Le immagini usate nelle fake news sono sempre originali e non modificate. ( ) 6. La ricerca inversa delle immagini su Google può aiutare a scoprire l'origine di una foto. ( ) 7. Condividere articoli senza leggerli attentamente aiuta a fermare la diffusione delle fake news. ( ) 8. Parlare con amici e familiari può aiutare a contrastare la diffusione delle notizie false. ( ) 9. Le leggi contro le fake news possono limitare la libertà di espressione. ( ) 10. Il modo migliore per combattere le fake news è credere ciecamente a tutto ciò che leggiamo. ( ) Esercizio 2: Completa le frasi con le parole del box. Parole: bufala - verificare - testata giornalistica - fonte - sensazionalistico - indignazione - decontestualizzare - pop-up - responsabilità – diffusione 1. Un titolo ___________ attira più lettori, ma spesso non racconta tutta la verità. 2. Le immagini possono essere facilmente ___________ per creare notizie false. 3. È una tua ___________ controllare le notizie prima di condividerle. 4. Quando leggi un articolo, controlla sempre la ___________ per capire se è affidabile. 5. A volte una semplice ___________ può creare confusione e panico. 6. Le finestre ___________ sono fastidiose e spesso indicano siti poco affidabili. 7. Quando qualcuno scopre di aver creduto a una ___________, può provare molta ___________. 8. La ___________ di notizie false è un problema serio oggi. 9. Le informazioni che trovi su una ___________ sono generalmente più affidabili di quelle sui blog. 10. Prima di condividere una notizia, è importante ___________ se è vera.
- Qui Roma… I “Carabinieri dell’Arte” e il Museo dell’Arte salvata
#ScaviClandestini #Furti #EsportazioneIllecita #RicettatoriInternazionali #MuseiStranieri #CaseDAsta #CollezioniPrivate #PerquisizioniESequestri #IndaginiGiudiziarie #AccordiDiDiplomaziaCulturale #RestituzioniSpontanee #GiustiziaStorica. Ci sono tutti gli ingredienti per un thriller a lieto fine… e di fatto la storia di ogni operazione di recupero lo è. Il patrimonio artistico dell’Italia non si trova tutto al suo posto. Basti pensare alla natività del Caravaggio sparita da una chiesa di Palermo nel 1969, finita nelle mani della mafia e mai ritrovata, o al caso del collezionista giapponese con base a Ginevra (crocevia dello smistamento) al quale sono stati sequestrati circa 350 reperti d’arte etrusca, preromana e magnogreca. Ed anche, per assurdo, furti in senso contrario… da parte di audaci e patriottici cittadini per riportare a casa le opere! “Le opere d’arte e i manufatti archeologici rubati, dispersi, venduti o esportati illegalmente costituiscono una perdita significativa per il patrimonio culturale di un Paese, in quanto sono espressione della sua memoria storica, dei suoi valori collettivi e dell’identità del suo popolo. Non è un caso che durante i conflitti internazionali gli aggressori danneggino spesso, intenzionalmente e deliberatamente il patrimonio culturale, colpendo le radici stesse dell’identità del Paese nemico” (cit. Ministero della Cultura Italiano). Il traffico illecito di opere d’arte è una realtà che supera i confini nazionali e attraversa gli oceani, la misura del fenomeno è questa: circa 8 milioni di manufatti censiti, 4,5 milioni di reperti recuperati di cui 70.000 all’estero. Le opere recuperate provengono soprattutto da sequestri a grandi ricettatori o collezionisti, inseriti nella ramificata trama del commercio internazionale che ha alimentato anche prestigiose collezioni di musei stranieri, ma anche da restituzioni spontanee e trattative con le direzioni museali estere. In questa che potremmo definire una emorragia di arte (impropriamente forse, ma Il nostro DNA è in quelle opere) la buona notizia è che l’Italia è leader mondiale nel recupero. Il perno centrale del modello di tutela italiano è il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC), istituito nel 1969 anticipando persino l’UNESCO: i cosiddetti “Carabinieri dell’Arte”. L’Arma, nei suoi oltre cinquant’anni di attività a tutela del nostro patrimonio artistico, ha sottratto dalle mani di personaggi senza scrupoli e riportato a casa una quantità di beni archeologici e artistico-storici, avvalendosi di piattaforme e strumenti informatici costantemente aggiornati e operando in collaborazione con forze di polizia di altri Paesi per la conservazione e condivisione dei dati raccolti dal web, deep-web e social media. Algoritmi che permettono di analizzare info testuali e immagini dai vari canali, approfittando proprio del crescente utilizzo dei canali telematici per il traffico di opere. Si chiama Leonardo la "Banca dati dei beni illecitamente sottratti” istituita negli anni ‘90, l’archivio informatico più grande al mondo specificamente dedicato che già guarda al futuro con la nuova piattaforma SWOADS (Stolen Works Of Art Detection System), prototipo di partenza per sviluppare una rete internazionale atta a prevenire e contrastare questo tipo di reato. Una volta intercettati gli oggetti, questi iniziano un percorso virtuoso che li riporta indietro e non solo, gli restituisce splendore e gli rende giustizia. Attraverso la rete di collaborazione istituzionale, che oltre alla Magistratura e le autorità estere si estende agli organi del Ministero della Cultura e all’Istituto Centrale del Restauro, i manufatti recuperati vengono poi studiati e restaurati per essere riportati alle condizioni migliori e ai luoghi di origine. Uno dei danni maggiori del mercato illecito è infatti quello di far perdere il dato della provenienza e il contesto in cui il reperto era inserito, limitandone di conseguenza la piena comprensione nel suo ruolo di testimone del passato. La terza tappa del percorso, dopo tutela e studio, è la divulgazione di questo patrimonio comune tornato a casa, con lo scopo di accrescere la sensibilità delle persone verso la testimonianza e l’eredità che gli è stata lasciata dai loro avi. Ecco il lieto fine, da festeggiare con una mostra in un museo unico al mondo. La perla finale è il Museo dell’arte salvata istituito nel 2022 e riaperto il mese scorso con una nuova raccolta di recuperi che prima di intraprendere il loro viaggio di ritorno si fermano qui per essere mostrati a tutti in questa sede straordinaria. Lo spazio museale è l’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, il vasto complesso archeologico – se mi seguite nelle mie esplorazioni ricorderete che ne abbiamo già parlato in un editoriale precedente – di cui l’aula è un frammento rimasto isolato, immerso nel traffico che vibra intorno alla stazione centrale di Roma. Per i romani e per me questo luogo però continua a chiamarsi “il Planetario” quando va dato un appuntamento o un’indicazione, perché dal 1928 (inaugurato da Mussolini) e fino a i primi anni Ottanta del secolo scorso, l’Aula ha ospitato uno dei più preziosi e sofisticati strumenti destinati alla conoscenza della volta celeste, il celebre planetario Zeiss con cui fu realizzata la prima simulazione del cielo stellato del nostro emisfero. Entrando alzo gli occhi sul portale dove ancora c’è Dante a ricordarcelo: “l’amor che move il sole e l’altre stelle”…mescolando la memoria storica con i miei ricordi personali. Venivo qui da bambina con mio papà che mi illustrava il firmamento mentre mi educava a quello dei sentimenti, delle emozioni e della storia umana che ci racconta l’arte. All’interno la leggera struttura di sostegno delle stelle è stata conservata… aggiungendo fascino al tutto. Lo spazio espositivo è organizzato in teche e pannelli modulabili, dovendo accogliere e mostrare al pubblico reperti sempre diversi. Il progetto museale, infatti, modello esportabile in altri Paesi colpiti, prevede una rotazione: nuovi recuperi andranno a sostituire i reperti attualmente esposti, che troveranno una collocazione stabile nei musei e nei siti di origine, almeno per quello che sarà possibile ricostruire, a disposizione della collettività e degli studiosi, riappropriandosi del ruolo che spetta loro nel racconto della storia dei popoli che li hanno prodotti. In questo momento si possono ammirare più di cento oggetti di varie civiltà recuperati e rimpatriati dagli Stati Uniti d’America e da diversi Paesi europei tra il 2022 e il 2025, provenienti da aree dove questo fenomeno criminale è stato più diffuso: le zone dell’antica Etruria, la Magna Grecia e la Sicilia. Entrando nel sito web del Museo potrete stupirvi di ogni tipologia di recupero: Operazione Fenice, Operazione Antiche Dimore, Il tesoro di Londra e New York… Dietro ogni furto si nasconde un pezzo di mondo (v. file allegato). Per capire cosa rappresenti il patrimonio artistico nel contesto delle relazioni internazionali è interessante il docufilm Operazione Budapest (disponibile su Prime Video) che ricostruisce uno dei colpi più audaci della storia, il furto d’arte che nel 1983 scosse l’Est durante la Guerra Fredda, ripercorrendo l’indagine internazionale che ne seguì in un intreccio tra criminalità organizzata, spionaggio e geopolitica. Interessante ed emozionante su Ray Play ascoltare direttamente dal Comandante dei Carabinieri dell’Arte le dinamiche investigative e lo scenario in cui si svolgono, e dal Direttore del Museo Nazionale Romano le vicende del reperto eccezionale con cui è stata aperta la prima mostra: Orfeo e le Sirene, gruppo scultoreo in terracotta, a grandezza naturale, del III sec. A.C.; trafugato negli anni ’70 dai cosiddetti “tombaroli” in uno scavo clandestino a Taranto (importante polo artistico della Magna Grecia) e approdato nel Getty Museum di Los Angeles. Va detto, infine, che tra i beni recuperati capita di trovare anche quelli di altri Paesi (Egitto, Siria, ecc.) ai quali vengono puntualmente riconsegnati, un gesto concreto di rispetto e collaborazione fra gli Stati; un esempio di diplomazia culturale che testimonia l’efficacia della legislazione italiana in materia di tutela dei beni culturali, che non si limita al patrimonio nazionale ma si estende al rispetto del patrimonio delle civiltà di tutto il mondo. La cultura, grazie alla sensibilità dell’Arma, dell’Autorità Giudiziaria e delle istituzioni culturali italiane ed estere, anche in tempi difficili per la diplomazia internazionale, si conferma un ponte tra i popoli… uno strumento di pace. Per approfondire: https://museonazionaleromano.beniculturali.it/landing-page/museo-dellarte-salvata/ https://tpcweb.carabinieri.it/SitoPubblico/home/informazioni/swoads https://youtu.be/xWpz-U7WBeo – L’Aula che ospitò i pianeti https://archidiap.com/opera/sala-ottagona-delle-terme-di-diocleziano/ https://storiearcheostorie.com/2022/09/19/archeologia-orfeo-e-le-sirene-capolavoro-trafugato-negli-anni-70-torna-in-patria-ritrovera-casa-nella-sua-taranto/
- Cruciverba - La città (B1)
Esercizio linguistico a cura di Josto Luzzu, livello B1: un piccolo cruciverba sul vocabolario della città (vocabolario del capitolo 7 di Dieci B1 ). Soluzioni:
- Sapere vs Conoscere
Breve Spiegazione: SAPERE indica una conoscenza superficiale, qualcosa che sappiamo quasi per caso, senza aver studiato a lungo o fatto ricerche. CONOSCERE indica una conoscenza approfondita, qualcosa che sappiamo perché abbiamo studiato molto, fatto ricerche, ci siamo impegnati. Leggi le frasi e scegli la forma corretta. Conosco / so Lucia da tanto tempo e conosco / so che è una persona disponibile. Mi scusi, conosce / sa dove è la stazione? Questa estate in vacanza ho conosciuto / ho saputo Luigi, un ragazzo di Firenze. Cosa è successo? Non lo conosco / Non lo so. Scusa, conosci / sai che ore sono? Anche se sono una brava cuoca, non so / conosco cucinare questo piatto. Conosco / so un buon ristorante dove fanno una carbonara buonissima. Sai / Conosci nuotare? Conosci / Sai come si dice “necklace” in italiano? Sì, lo so / lo conosco: si dice “collana”. Conosciamo / Sappiamo tutti che prima prenotiamo l’aereo, meno paghiamo.
- Qui Roma… Il futuro incontra il passato nelle "Archeostazioni"
“Viaggio al centro della terra”, “Incontri ravvicinati”, “Ritorno al futuro”… Quanti titoli si potrebbero dare allo short-film di una giornata romana, in cui vivendo intensamente il nostro presente scendiamo di 50 metri sottoterra, incontriamo i nostri antenati, per poi risalire e andare in ufficio? Sta per accadere qui a Roma, dove passato presente e futuro si stanno allineando sulla linea C della nuova metropolitana, che non viaggia solo nello spazio urbano ma anche nel tempo. Una struttura di trasporto all’avanguardia che nel tratto centrale, attraversando il centro storico, apre una finestra sotterranea sulla Roma Antica con le "Archeostazioni", poli museali sotterranei che diventano un nuovo spazio urbano aperto ai cittadini e a tutti gli utenti della metropolitana o del museo ipogeo. Entrando nell’atrio della stazione, prima ancora di fare il biglietto, quindi a disposizione di tutti, troviamo la comunicazione multimediale che descrive il progetto e la sua realizzazione, ai livelli intermedi le teche che espongono i reperti più significativi, proprio come in un museo… ma con il biglietto di un viaggio in metro. Questo significa veicolare la cultura a centinaia e migliaia di persone seguendo i passi di tutti. Conciliare la vita di superficie e la storia sepolta nel sottosuolo ha sempre rappresentato una difficoltà nell’adeguare Roma agli standard di modernità delle capitali europee, perché è proprio l’unicità del suo patrimonio storico a renderla tra le più frequentate e nello stesso tempo tra le più difficili da gestire. Più che mai questo anno giubilare ha reso evidente la necessità di adeguamento della rete dei trasporti. Pellegrini, turisti, residenti, pendolari… arrivano e si concentrano nei luoghi iconici del centro storico, provenendo dall’estero o da altre regioni, o più semplicemente dalle zone periferiche della città; quindi si spostano e i mezzi di superficie non bastano più, dovendo superare l’ostacolo del traffico lungo i loro percorsi obbligati; finora possedevamo solo due linee di metropolitana (A e B) in croce, rispetto alla rete di trasporti veloci delle altre capitali. La complessità tecnico-realizzativa a Roma è massima, perché quando scavando si incontrano reperti archeologici vanno salvaguardati e in genere pensiamo “vasi”... non una intera caserma romana di 1750 mq del II secolo d.c.! I materiali archeologici sono preziosi sempre, proprio perché ci consentono di ricostruire condizioni e contesti di un passato dimenticato sul quale si sono fondate le epoche successive, sino ai giorni nostri; quel rapporto prezioso tra passato e presente su cui si fonda l’identità della città contemporanea. Ciò che viene costruito è sempre legato all’uomo, alle sue idee e alla sua storia, ciò che viene salvato diventa racconto comune con cui entriamo in contatto ogni giorno, la cultura è alla base delle nostre esistenze. Le stazioni-museo ipogee della metropolitana sono quindi come un grande pozzo che riporta alla luce i frammenti e le storie di un passato remoto, memorie dal sottosuolo che ci parleranno in eterno, un nuovo modo di vivere la Capitale e di raccontare la sua storia. Realizzare la terza linea metro di Roma è una grande sfida, alla quale le istituzioni responsabili dei vari aspetti stanno rispondendo con un approccio innovativo, avendo stabilito un doppio obiettivo condiviso: rendere più vivibile la città e rendere fruibile questo patrimonio storico che finora è stato soprattutto “conservato” grazie al costante presidio della Soprintendenza Archeologica ai Beni Culturali. Grande merito questo, che ha permesso di non distruggere nulla, almeno da un certo punto in poi, come invece è accaduto negli sventramenti precedenti del regime fascista per i quali abbiamo perso tutto il tessuto storico lungo i fori imperiali verso il Colosseo e lungo via della Conciliazione verso San Pietro, per citare solo i casi più eclatanti del prezzo pagato per la modernità di Roma in quel periodo. Oggi si sta andando oltre tutto questo, perché c’è il Ministero della Cultura che presiede e ci sono i fondi per scavare e costruire in modo diverso, ma soprattutto c’è la collaborazione illuminata tra tutti gli attori del processo: committenti e progettisti della rete underground, ditte realizzatrici e Soprintendenza ai Beni Culturali che detiene la Direzione Operativa Scientifica. Questa collaborazione tra i realizzatori di grandi opere e chi si occupa della conservazione del patrimonio storico e artistico della città ha permesso di fare un salto in avanti e scavalcare l’ostacolo del vincolo realizzativo trasformando il problema in un punto di forza. Come sempre accade, se i ruoli non diventano recinti le possibilità di soluzione diventano infinite e nulla si paralizza. Innovazione e collaborazione per la salvaguardia delle nostre radici . Le talpe meccaniche hanno interagito con un patrimonio unico al mondo e l ’unicità del territorio attraversato ha ispirato una metodologia progettuale dedicata e specializzata inaugurando così lo “scavo con modalità archeologica”. La costruzione delle stazioni e dei pozzi di aerazione ha reso necessaria l’asportazione di consistenti volumi di depositi archeologici sepolti, rappresentando una opportunità unica da un lato di aggiornare tutta la cartografia storica, acquisendo nuovi e importanti dati al fine di ricostruire la morfologia originaria di porzioni di territorio mai indagate prima (soprattutto a causa della profondità di giacitura delle stratigrafie antiche), dall’altro di definire soluzioni progettuali compatibili con il substrato archeologico. Nasce così per la prima volta in Italia il cosiddetto “Prontuario delle indagini archeologiche di seconda fase“che, dopo le indagini archeologiche preventive di prima fase propedeutiche alla progettazione definitiva, definisce per ogni sito le modalità di scavo da implementare alle diverse profondità e le modalità di asportazione dei rinvenimenti. I ritrovamenti sono diventati protagonisti di una notevole valorizzazione del passato nel presente con gli allestimenti museali all’interno delle stazioni più centrali, appunto le Archeostazioni: San Giovanni , Porta Metronia , Colosseo-Fori Imperiali e la futura stazione Venezia , l a più imponente e complessa, oggi il maggiore snodo di traffico nel cuore del centro e futuro snodo anche per i musei circostanti (Palazzo Venezia, Vittoriano, area archeologica dei Fori). Il suo volume complessivo, che scende alla profondità di 45 mt, è tale che possiamo immaginarla equivalente ad inserire il Vittoriano nel sottosuolo. È molto interessante il video che illustra le fasi di scavo e costruzione dell’edificio sommerso con il nuovo metodo del “Top-Down Archeologico”, ove per proteggere i reperti si procede al contrario del metodo classico dal basso verso l’alto. Ecco perché da un po’ di tempo arrivando in centro sembra di entrare in un grande cantiere, di cui purtroppo si percepiscono solo i disagi: deviazioni del traffico, foto-souvenir con il cantiere sullo sfondo invece che antiche colonne, ponteggi e recinzioni che sembrano aver preso il sopravvento sul fascino delle rovine imperiali. Istintivamente ne siamo infastiditi e ci domandiamo perché impieghino tanto tempo e non siano ancora finiti i lavori. Non ci si domanda altro… Ma quando ci saremo dentro, capiremo. Al momento l’unica in cui posso farvi scendere con me è la Stazione San Giovanni, la prima aperta al pubblico; qui lo scavo ha riportato in luce i resti di una grande azienda agricola della prima metà imperiale ( I secolo d.C.) che ci racconta molte cose sulla società romana antica: da come gestivano le acque di irrigazione dei terreni (con un grande bacino idrico che poteva conservare più di 4 milioni di litri d’acqua) alla coltivazione delle pesche da poco immesse dalla Persia nei mercati romani e destinate alle classi elitarie (a Roma le pesche si chiamano persiche , ecco perché). Ogni frammento racconta qualcosa, molto interessante anche l’esposizione del materiale ceramico di epoca moderna, tra i quali spicca un piatto con la rappresentazione di una sorta di "ambulanza” in uso nel ‘500. Scendendo con le scale mobili prendiamo confidenza con la lettura di scansione temporale connessa alla profondità che apparirà in tutte le Archeostazioni e ci accompagnerà nella discesa verso i binari attraversando le diverse epoche. Lo stratigrafo è la chiave per comprendere questo viaggio a ritroso nel tempo ; qui a San Giovanni si parte dalla quota -5 della città contemporanea, con l’inaugurazione della metro C nel 2018, e passando per la fondazione di Roma si scende fino ad una profondità di -27m che corrisponde a quando la presenza umana era lontana a venire e c’era un paesaggio diverso. Lo immaginiamo mentre attendiamo l’arrivo del treno guardando la decorazione a parete dove tra la folta vegetazione compaiono le zanne dell’ elephas antiquus (elefante antico) che simboleggia l’età preistorica. Poi arriva il treno… e si va in ufficio. Le Archeostazioni sono il frutto di questa visione innovativa dove bellezza e funzionalità si uniscono; poli museali sotterranei dove il futuro incontra il passato, dove storia e bellezza conservate in silenzio per secoli tornano alla luce in uno dei più grandi cantieri d’Europa. Del resto, l’ingegneria romana che ha resistito ovunque ai millenni non può tradire il suo DNA… e qui, dove è nata, quella moderna sta dialogando con la sua antenata. Per saperne di più: https://metrocspa.it/museo-sotto-i-piedi/
- Come un pittore (livello A2). Esercizio sui colori e sul comparativo di uguaglianza
La canzone " Come un pittore " del gruppo italiano Modà è stata pubblicata nel 2011 ed è una delle canzoni più famose del gruppo. Nel testo, i colori sono usati per descrivere sentimenti. Il cantante, infatti, descrive la gioia di essere padre e dipinge un vero e proprio quadro con la sua musica. Prima di cominciare, ecco alcuni vocaboli utili : • Tentare di fare qualcosa= provare a fare qualcosa • Disegnare = creare immagini con colori o matite • Arrivare al cuore = emozionare • Acerbo = non ancora maturo (per esempio: la frutta acerba ) • Tempesta = forte pioggia con vento e tuoni 1. Ascolta la canzone e completa con le parole mancanti ______, semplicemente ciao Difficile trovar parole molto ______ Tenterò di disegnare Come un pittore Farò in modo Di arrivare dritto al cuore Con la del colore ______ Guarda senza parlare ______ come te Come il cielo e il mare E ______ come luce del sole ______ come le cose che mi fai Provare Ciao, semplicemente ciao Disegno l'erba ______ come la speranza E come frutta ancora acerba E adesso un po' di ______ Come la notte Il ______ come le sue stelle Con le sfumature ______ E l'aria puoi solo respirarla______ come te Come il cielo e il mare E ______ come luce del sole ______ come le cose che mi fai Provare Per le tempeste non ho il colore Con quel che resta disegno un ______ Ora che è estate, ora che è amore ______ come te Come il cielo e il mare E ______ come luce del sole ______ come le cose che mi fai Provare 2. Rispondi alle domande: 1. 2. 3. Di cosa parla la canzone? Quali emozioni trasmettono i colori menzionati nella canzone? Perché il cantante dice di non avere un colore per le tempeste? 3. Associa i colori ai loro significati Collega ogni colore al suo significato nella canzone: 1 Azzurro 2 Giallo 3 Rosso 4 Verde 5 Bianco 6 Blu A. Come il cielo e il mare B. Come luce del sole C. Come le cose che mi fai provare D. Come la notte E. Come la speranza e la frutta acerba F. Come le stelle con sfumature gialle 4. Scrivi una frase con il comparativo di uguaglianza “come", associando i colori a due oggetti Esempio: Azzurro → Il mare è azzurro come il cielo. → Ricorda: alcuni colori, quando sono aggettivi, non cambiano il loro genere e il loro numero a seconda del nome a cui si riferiscono! 1. Rosso → ------------------------- 2. Beige → ------------------------- 3. Verde → ------------------------- 4. Rosa → ------------------------- 5. Giallo →------------------------- 6. Blu →---------------------------- 7. Bianco →----------------------- 8. Nero →------------------------- 9. Viola →------------------------- 5. Tocca a te: usa i colori per descrivere un'emozione che conosci bene!
- Qui Roma…l’istante e l’eternità
Quanto dura un istante e quanto l’eternità’? Solo in apparenza sono quantità definite. Einstein afferma che il tempo non è affatto ciò che sembra e non scorre in una sola dimensione; quindi, il futuro esiste contemporaneamente al passato. Il calco di due vittime anonime dell’eruzione del Vesuvio, che l’archeologia ha restituito immobilizzate nel momento della morte, cristallizza l’eternità di un istante: se quell’istante entra nella storia diventa immortale. Una riflessione sul tempo, per il quale i greci usavano tre parole distinte: Aion l’eterno / Kronos il tempo lineare e ciclico del cosmo e della vita umana / Kairos l’attimo fuggente, l’istante da cogliere. La catastrofe di Pompei sigilla per sempre nella lava la vita di esseri umani che in un secondo escono dal loro Kronos ed entrano nell’ Aion . Kronos si interrompe bruscamente e gli abitanti vengono proiettati nell’ Aion fissandovi il loro tragico Kairos . L’eternità è nel congelamento di quell’istante che li proietta dal 79 d.C. fino a noi. Questa riflessione mi risuona dentro da quando una mostra con questo titolo mi ha condotto in un percorso fuori dal tempo e dagli schemi di quello che solitamente offre una mostra, non solo promotrice di conoscenza ma anche di emozioni e soprattutto riflessione. Allestita nel complesso archeologico delle Terme di Diocleziano dove alcune delle Grandi Aule, dopo decenni di chiusura, sono state riaperte al pubblico con una nuova fruizione all’interno del Museo Nazionale Romano ideatore del progetto Depositi (Ri)scoperti; qui venne messo in salvo il patrimonio artistico del giovane Regno d’Italia durante la Seconda guerra mondiale. Uno spazio espositivo di dimensioni e caratteristiche straordinarie di fronte alla stazione Termini, quella centrale di Roma, che ancora ne evoca il nome perché era lì la cisterna per l’enorme quantità di acqua necessaria al più grande impianto termale di epoca romana. Uno spazio ideale quindi per entrare in rapporto con l’antichità. Ognuno di noi a Roma e in Italia in generale sperimenta il contatto con l’antico nel tessuto urbano delle nostre città, la storia è qualcosa che fa parte del nostro quotidiano perché, come scritto inaugurando questa rubrica, “sulla storia camminiamo e inciampiamo ad ogni passo” , non solo quindi sopravvivenza dell’antico ma spazi vissuti e quindi vivi. Nell’ultimo decennio si è assistito in Italia a un profondo cambiamento dell’istituzione museale, per cui questa mostra indaga la relazione tra l'uomo contemporaneo e l'antichità secondo una logica espositiva del tutto nuova, mettendo in relazione l’ istante e l’eterno, l’effimero con il durevole, il mito con il quotidiano, attraverso una selezione di 300 reperti di eccezionale valore, alcuni appena scoperti e ancora inediti, provenienti dalle civiltà greca, romana, etrusca, italica, medievale, moderna e contemporanea. Questo il fil rouge che collega queste opere, che ci parlano di come queste tre dimensioni del tempo siano presenti nella nostra contemporaneità e quindi nella nostra identità culturale; un affascinante viaggio attraverso il complesso legame che intercorre tra noi e il mondo antico, tra l’uomo e l’antichità, tra l’essere umano e il tempo. L'enigma che lega indissolubilmente condizione umana e tempo si riflette nelle opere che ogni civiltà antica ha lasciato di sé; opere che incarnano l’intenzione umana di sopravvivere al proprio tempo finito, di rappresentarsi, di raccontarsi. L’allestimento di ingresso è di forte impatto, i due corpi delle vittime di Pompei sono la sintesi di tutto e il titolo della prima sala: “L’eternità di un istante”. Da qui si aprono due percorsi ciascuno inaugurato da strumenti pratici per orientarsi, oggetti d’arte di varie epoche (orologi, clessidra, sestante, bussola) che testimoniano la tensione inesauribile dell’essere umano a collocarsi in rapporto a tempo e spazio, a rendere ciò che è intangibile ed eterno un’entità misurabile. Nella dimensione temporale, ora percepita come un’eternità senza confini ora come un istante puntuale, si misura l’eredità del passato. Nella sezione “La fama eterna degli eroi”, vediamo come l’arte richiama il mito quale forma di eternità. “Il Mito è qualcosa che non è mai accaduto, ma che in realtà accade sempre” (Sallustio). Non c’è un rigido mistero originario ma una profonda verità umana. Il ritratto di Omero introduce al tema della trasmissione dei miti del ciclo troiano nel mondo greco, etrusco, romano e della sua eredità contemporanea, racconti orali e poi scritti di cui gli archeologi hanno ricercato le radici storiche. Seppur riferiti a tempi remoti caratterizzati da sistemi rituali, organizzazioni sociali e codici di valori ormai enormemente distanti, i sentimenti quali l’amicizia tra gli eroi, l’amore per i familiari, le sofferenze causate dalle guerre, corruzione, seduzione, vendetta, rendono i poemi omerici racconti universali e attuali. I reperti esposti riconducono quindi al mito fondante della cultura occidentale, guerra di Troia e peregrinazioni di Ulisse, di cui è restituito nella mostra tutto il ciclo esponendo opere non contemporanee dal settimo secolo a.C. al ‘700 fino all’ arte contemporanea, non secondo una logica tipologica o cronologica bensì mescolando gli oggetti, proprio per far capire quanto il mito è eterno perché dura. Il giudizio di Paride che con una mela deve designare la più bella è nel vaso di Paros del settimo secolo a.C., nel calamaio del ‘500 di Faenza, come nel ‘700 torinese. Il nostro rapporto con il tempo passa quindi attraverso il nostro rapporto con gli antichi e il loro messaggio: da un lato si sviluppa attraverso un lungo processo di trasmissione intellettuale e artistica che ha plasmato la nostra cultura classica, dall’altro è divenuto un legame di immedesimazione con individui che, pur se vissuti in epoche lontane, come noi hanno affrontato tutte le vicende della vita e ci trasmettono le loro emozioni e le loro esperienze attraverso voci e forme che giungono fino a noi. “ Un’eredità culturale che ispira la nostra filosofia contemporanea. Tradizione e modernità, due facce della stessa medaglia ” (cit.: Ministro della Cultura ) Le civiltà del mediterraneo antico, con dinamiche culturali diverse, hanno lasciato tracce indelebili variamente interpretate nei secoli; gli oggetti esposti mostrano tipiche reinterpretazioni dei motivi classici, volgarmente “all’antica”, quei soggetti decorativi che ancora oggi sono nelle nostre case e sulle nostre tavole; diverse forme, popolari o colte, di reinterpretazione moderna dell’antico, personaggi e figure mitologiche sui servizi in porcellana creati in epoca moderna, fanno tutti parte della nostra enciclopedia di conoscenza e quindi della nostra identità europea che affonda le radici nella civiltà greco-romana; comunicazione visiva, pensiero filosofico, produzione letteraria che hanno attraversato con alterne vicende il tempo. Conclude l’affascinante viaggio una eccezionale galleria di ritratti di individui anonimi. Dal 3000 a.C. al 300 d.C. le statue neolitiche si fanno via via più precise fino a rappresentarsi come divinità che messe a confronto mostrano le analogie e le differenze tra i popoli che hanno contribuito ad annodare le radici della nostra identità europea. Svetta e sembra vegliare su tutte la grande Kore (fanciulla) rinvenuta sdraiata a Santorini e ancora mai mostrata al pubblico, eccezionale reperto in prestito a testimoniare la collaborazione tra le istituzioni culturali del mediterraneo. Se di tutto questo sto scrivendo oggi, a distanza di tempo da quella mostra, è perché in questi giorni più che mai qui a Roma si è fatta la storia e ognuno di noi c’era dentro, insieme a pellegrini, governanti e cardinali da tutto il mondo. Capita quindi, vivendo qui, di passare per via della Conciliazione, la strada maestra che culmina in Piazza S. Pietro, e trovarsi tra la folla che plaude all’annuncio “ Habemus Papam!” Come definire quell’istante in cui il cambiamento incrocia la storia di un singolo uomo e quella dell’umanità in cammino? In questi pochi giorni appena trascorsi dalla Pasqua, nel bel mezzo di questo anno giubilare, siamo passati dal doloroso annuncio della morte di Papa Francesco, all’attesa speranzosa, fino al gaudium magnum per la salita di Leone XIV al soglio di Pietro. Ecco Kairos : l’stante della morte e l’istante che può cambiare la storia. Abbiamo fatto ore di fila calcando i sampietrini di P.zza S. Pietro o quelli dei Fori Imperiali per rendere omaggio al Papa che ci ha lasciato proprio il Lunedi dell’Angelo, nella Pasquetta “fuori porta” dei romani…abbiamo varcato la porta tra passato e presente, tra l’attimo dell’uomo e l’eternità della storia, mentre le nostre vite facevano il loro corso nel Kronos ; le nostre come quelle di chi ha posato quei sampietrini, gioie e dolori, gli stessi sentimenti umani di ogni ciclo di vita che si ripete come le stagioni, il tempo dell’uomo e quello del cosmo. Tutti quei volti intorno a me nella folla, tratti somatici di popoli diversi che recano le stesse espressioni davanti alle emozioni di quei momenti intensi rendono per me vive anche quelle dei marmi dell’ultima sala della mostra, dove osservando dal centro i ritratti disposti a cerchio intorno a noi ci si sente quasi osservati da loro: “ abbiamo vissuto come voi, voi sarete come noi”. Perdersi tra la folla… perdendosi in questa riflessione... Crediti fotografici Parte delle immagini sono state estratte dal catalogo edito da Electa, partner della mostra. https://www.electa.it/prodotto/listante-e-leternita/
- Parole italiane usate in tutto il mondo (Level A)
1. Bella La parola "bella" in italiano significa "bella" o "graziosa". A volte, anche in inglese, si usa la parola "bella", soprattutto in situazioni romantiche o letterarie. Grazie alla musica italiana e al cinema, frasi come "ciao bella" sono diventate popolari anche in inglese. La lingua italiana è molto bella da ascoltare, e parole come "bella" ricordano eleganza e bellezza, facendo pensare a cose belle e artistiche. Anche gli anglofoni trovano affascinante questa parola. 2. Opera La parola "opera" viene dall'italiano e si usa in inglese per parlare di una forma d'arte che unisce musica, teatro e scenografia. La parola viene dal latino "opus", che significa "lavoro". L'opera nasce in Italia durante il Rinascimento. Compositori italiani come Puccini e Verdi hanno creato molte opere famose. Oggi, la parola "opera" si usa in tutto il mondo per parlare di tutte le opere liriche, non solo quelle italiane. 3. Cappuccino Il cappuccino è una bevanda italiana molto famosa in tutto il mondo. In inglese, si usa la parola "cappuccino" senza cambiarla. Il nome viene dai frati Cappuccini, che indossano abiti marroni, come il colore della bevanda. Oggi, il cappuccino è molto popolare e si trova nei menu di caffetterie in tutto il mondo. Questo dimostra quanto sia famosa la tradizione del caffè italiano. 4. Pizza La pizza è uno dei piatti italiani più famosi e amati nel mondo. La parola "pizza" è usata in tutto il mondo senza modifiche. La pizza è nata a Napoli ed è diventata molto popolare. Anche se in ogni paese la pizza può essere diversa, la parola "pizza" è sempre la stessa. La pizza è diventata un simbolo della cucina italiana nel mondo. LEGGI IL TESTO E RISPONDI ALLE DOMANDE 1. Che cosa significa la parola "opera"? a) Un tipo di musica b) Un piatto italiano c) Una forma d'arte che unisce musica, teatro e scenografia 2. Da cosa deriva il nome "cappuccino"? a) Dal colore della bevanda b) Dal nome di una città c) Dal colore dei vestiti dei frati Cappuccini 3. Dove è nata la pizza? a) Roma b) Milano c) Napoli 4. Cosa dimostra il fatto che la parola "pizza" non è cambiata in inglese? a) La pizza è un piatto molto famoso nel mondo b) La pizza è poco conosciuta c) La pizza è difficile da pronunciare 5. Quando si usa la parola “bella”? a) Per commentare un film, un’opera d’arte o la musica b) Per mangiare c) Per criticare qualcuno
- Qui Roma… nel Senato di Giulio Cesare si discute del Partenone
Anno Domini 2025, siamo vicini alle Idi di Marzo e nel Senato di Cesare si discute su un problema che pone Atene; il pensiero va a lui anche se non è qui che è stato ucciso, ma siamo qui nel suo Foro Imperiale… 2500 anni dopo… e certamente lui avrebbe presenziato alla discussione, perché la Curia Iulia era il luogo da lui voluto per le questioni importanti e questa lo è. La connessione tra passato e presente qui è forte e la percepiamo tutti noi che siamo seduti in quella stessa curia, su quello stesso pavimento, intatto, a discutere del Partenone a due passi dal Colosseo. Due landmark iconici, due simboli, non solo delle capitali in cui si trovano ma delle due grandi culture che hanno influenzato tutto il Mediterraneo e l’Occidente. Possiamo quindi capire bene che se accadesse al Colosseo quello che è accaduto al Partenone non sarebbe solo una questione di marmi, ma di un simbolo. È per questo che siamo proprio qui nel cuore del Parco Archeologico del Colosseo, dove è volato da Atene il Direttore Generale del Museo dell’Acropoli insieme al Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene, per fare il punto sulla questione “I Marmi del Partenone: la bellezza eterna”. La bellezza ci entra dentro senza chiedere il permesso... è prepotente la bellezza. Era il V secolo a.C., conosciuto come “il secolo d’oro”, in cui Atene raggiunse il suo massimo splendore sotto la guida di Pericle: di egemonia politica, di crescita economica e di fioritura artistica e culturale. Pericle affidò a Fidia, il massimo artista dell’epoca, la direzione del progetto che doveva esaltare in una narrazione di straordinaria bellezza i valori ateniesi, ponendoli sotto la protezione di Athena Parthenos dedicandole un tempio sul punto più alto della città. I cosiddetti “marmi del Partenone” sono quindi i gruppi scultorei dei due frontoni e i fregi bassorilievi che un tempo erano parte integrante del più importante tempio dell’Acropoli di Atene e che ancora oggi sono considerati tra i maggiori capolavori artistici prodotti dall’umanità. Da allora, 432 a.C., trasformazioni e distruzioni si sono susseguite per secoli: da Tempio a Chiesa a Moschea e persino utilizzato come polveriera dai turchi! Le membra del Partenone, come quelle di un corpo martoriato, giacenti a terra scomposte, frantumate dall’esplosione nell’assedio dei Veneziani, molte si trovano oggi sparse in Europa, soprattutto in Inghilterra e Francia, attraverso i canali più vari, acquisite con modalità più o meno legittime. Se oggi possiamo immaginare l’intera composizione originaria è solo per alcuni disegni eseguiti prima delle distruzioni dai reporter dell’epoca, che muniti di carta e matita viaggiavano al seguito di diplomatici ed esploratori. Eppure, la sacralità di quel luogo, ancora oggi, quello scheletro che si erge sull’Acropoli, pure così spogliato, esercita un fascino ed ha un valore indiscusso che va oltre l’arte e tocca questioni più profonde. La democrazia di Pericle è quella che ha ispirato tutte le attuali democrazie dell’Occidente. Le sculture di Fidia hanno costituito il modello di riferimento per tutta la scultura classica ed ebbero un’importanza enorme nella storia dell’arte europea. Purtroppo, è sopravvissuta fino a noi solo la metà delle sculture e solo la metà di queste è custodita nel Museo dell’Acropoli. L’altra metà nel 1801 prese la via di Londra per mano dell’allora Ambasciatore Britannico presso l’Impero Ottomano, il lord scozzese di Elgin, con una presunta autorizzazione (non dei greci… ma dei dominatori turchi che avevano preso il controllo del Peloponneso!). I marmi rimossi dal tempio quindi come membra strappate al corpo (compresa una delle sei cariatidi dell’Eretteo, un’altra famiglia resa orfana…), con i fregi martoriati per dimunirne lo spessore (da 65cm a 14cm!) per agevolarne il trasporto in nave, finirono dapprima nella residenza di campagna del Lord e poi venduti al Governo Britannico sono ancora oggi esposti nel British Museum dal 1816. Questi Marmi con la M maiuscola furono uno shock dal punto di vista estetico perché non si era mai visto nulla del genere e generarono una vera rivoluzione artistica. Vennero chiamati i maggiori esperti per studiarli, vennero invitati artisti da tutto il mondo per esaminarli, tra cui anche Antonio Canova ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo nella scultura, soprannominato per questo "il nuovo Fidia"; fu chiesto a lui di restaurare le parti mancanti, ma si rifiutò, spiegando che quelle opere “erano opera degli artisti più abili che il mondo avesse mai conosciuto” e che “sarebbe un sacrilegio per chiunque presumere di toccarli con uno scalpello”. Lord Byron (anche lui inglese…) e altri intellettuali del tempo furono pesantemente critici su questa appropriazione. Digitare sul web “I marmi del Partenone” equivale a digitare “I marmi di Lord Elgin”, bellezza eterna ed eterna disputa. Politica ed economia, ovviamente, ma anche questioni di identità e di sovranità. Quando il conte di Elgin si prese i marmi smontandoli dal Partenone di Atene e li portò a Londra, non poteva sapere che da lì a 220 anni si sarebbe ancora parlato delle conseguenze di quell’iniziativa. Ancora se ne discute da quaranta anni senza che si sia arrivati ad una soluzione, perché il British Museum e il Governo inglese si rifiutano di restituirli, disponibili al massimo a prestarli (alla madre…!?) nonostante l’intervento dell’UNESCO che nel 1978 creò una commissione intergovernativa proprio per incentivare le restituzioni dei beni culturali acquisiti illegalmente. La sensibilità intorno al tema delle restituzioni di opere d’arte, infatti, sta cambiando e molti sforzi da allora sono stati fatti per poter riunire tutte le sculture al corpo del Partenone all’interno del Nuovo Museo dell’Acropoli, ove è custodita l’altra metà di quelle sopravvissute alle distruzioni. Non è occasionale che se ne parli oggi qui a Roma e che sia presente l’Ambasciatrice greca presso la Santa Sede, perché è dalla sensibilità dell’Italia e del Vaticano che sono partiti i due gesti esemplari che oggi costituiscono precedenti importanti: la restituzione del “frammento Falgan” dal Museo di Palermo (giunto in Sicilia ai primi dell’Ottocento con il console inglese Robert Falgan) e quella dei tre frammenti dai Musei Vaticani voluta da Papa Francesco “quale segno concreto del sincero desiderio di proseguire nel cammino ecumenico di testimonianza della Verità”. Le discussioni tra il Governo greco e il British Museum sono incentrate sul superamento di ostacoli normativi, ma il Prof. Stampolidis sta riportando il dialogo ad un livello più alto di civiltà che si converrebbe maggiormente al nostro secolo rispetto a quello dei colonialismi, perché le collezioni di certi musei occidentali sono anche frutto delle antiche dominazioni dei Paesi che ospitano quei musei. La conferenza, mirabilmente strutturata e appassionante, ha raggiunto momenti di emozione perché toccando i sentimenti più profondi di identità e appartenenza propri di ogni individuo ne rianima la parte più nobile, che si riconosce in una comunità dove tutti si emozionano allo stesso richiamo. Non esito a riportare qui che l’emozione è diventata commozione e ci ha portato quasi ad abbracciarci tutti con lo sguardo e a scambiarla con i vicini di seduta, nel veder riconosciuta una verità assoluta e universale che è quella naturale: quei Marmi sono nati per brillare al sole dell’Ellade… non nella nebbia di Londra! Il gesto creativo produce una nascita, in un certo luogo e in un certo momento; quella è la sua identità e l’identità non può essere smembrata. Lo scopo di questo articolo non è quello di entrare nella discussione, né ha la pretesa di raccontare la conferenza (che merita di essere ascoltata per intero dalla voce del Prof. Nikolaos Stampolidis), bensì quello di portare l’attenzione su un tema che sembra riservato agli addetti ai lavori ma in realtà riguarda un cammino di civiltà su cui siamo impegnati tutti, affinché si possa dire che l’essere umano davvero progredisce. In tempi mediatici in cui si parla soprattutto della parte peggiore, le guerre e i nazionalismi connessi, siamo chiamati a non ragionare solo in termini politici ed economici ma ad alzare lo sguardo. Uscendo dalla Curia Iulia è ormai sera, a cancelli chiusi ci siamo solo noi nel Foro Romano, ancora ci risuonano dentro le emozioni e nel cielo che si è oscurato brillano “i nostri ruderi” illuminati. Mi sale dal cuore la gratitudine per chi dedica la sua vita a preservare, custodire e difendere l’identità culturale di cui siamo fatti, in particolare verso il Prof. Stampolidis che ci ha fatto volare alto e la Presidente della Dante Alighieri di Atene (Dr.ssa Mariangela Ielo) per aver operato questa connessione per cui mi sono potuta sedere ad ascoltare, tra passato e presente, nel Senato di Cesare. Approfondimenti https://colosseo.it/mirabilia/curia-iulia/ https://www.archeologiaviva.it/19731/frammento-fagan-per-sempre-ad-atene/ https://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/museo-gregoriano-profano/Marmi-del-Partenone.html https://parthenonfrieze.gr/en/?sn=0
- Il Carnevale in Italia
Cenni storici Il Carnevale è una festa legata al mondo cattolico e cristiano. Le origini sono molto remote, nel periodo pagano. Durante queste festività era lecito lasciarsi andare, per dedicarsi allo scherzo e al gioco . Inoltre mascherarsi rendeva irriconoscibili il ricco e il povero, e scomparivano così le differenze sociali. Le maschere classiche Protagoniste del Carnevale da sempre sono le Maschere classiche più conosciute, le quali derivano da tradizioni locali che, spesso e volentieri, si sono intrecciate con il teatro popolare . Maschere tradizionali Pare che la più antica fra queste sia Arlecchino, originaria di Bergamo . Nel secolo XVI da Venezia arrivò la maschera di Pantalone e da Napoli Pulcinella , seguiti dal Dottor Balanzone di Bologna . Gli altri famosi personaggi del Carnevale italiano vengono da Torino (Gianduia), da Firenze (Stenterello), da Bergamo ancora (Brighella) e da Venezia il personaggio femminile più famoso che è Colombina. Ma molte altre se ne sono aggiunte negli anni. Carnevale a Venezia Nato come concessione di potenti ai divertimenti popolari, il Carnevale di Venezia ha una storia quasi millenaria e si compone di alcuni momenti fissi: La Festa delle Marie , dove dodici giovani ragazze sfilano per la città e ricevono premi in ricordo del rapimento e della liberazione di dodici promesse spose ai tempi del doge Pietro Candiano III (1039). Il Volo di Sant'Angelo , dove un acrobata si cala dal campanile di San Marco per raggiungere la piazza. Lo Svolo del Leon , che conclude il Carnevale con un tributo al Leone Alato simbolo della città. Nei giorni di Carnevale insomma, Venezia torna indietro nel tempo e si ricopre di magia. Il Carnevale di Viareggio Il Carnevale di Viareggio nasce nel 1873 , anno in cui viene organizzata la prima vera sfilata di carrozze addobbate in stile carnevalesco, che prenderà successivamente il nome di Corso Mascherato di Viareggio . Le carrozze si trasformeranno poi, col passare del tempo, nei carri allegoricie trionfali – costruiti artigianalmente dagli scultori e dai fabbri viareggini – che possiamo ammirare ancora oggi in tutta la loro maestosità. Nel 1921 , la sfilata dei carri sulla Via Regia della Passeggiata a mare viene accompagnata dalla musica: una banda al completo prenderà infatti posto su uno dei carri del corteo, donando un’atmosfera tutta nuova all’evento. In viaggio per l'Italia Foiano della Chiana (Arezzo), Toscana Il Carnevale di Foiano della Chiana è una manifestazione che si svolge annualmente a Foiano della Chiana, in Provincia di Arezzo. È uno dei più famosi e antichi carnevali italiani, essendo stati rinvenuti documenti risalenti all'edizione del 1539. Acireale (Catania), Sicilia Carnevale di Acireale tra l'Etna e il mare Maestosi carri allegorici, fatti coinvolgere dall'allegria dei gruppi mascherati, goditi gli spettacoli serali e. Tra i vicoli del barocco nell'incantevole 'Riviera dei Limoni'. Non perdere l'occasione di vivere questa esperienza unica! Rito ambrosiano – Milano Il Carnevale Ambrosiano si conclude il sabato successivo, chiamato "Sabato Grasso". La tradizione è collegata a Sant'Ambrogio, il patrono di Milano, che, secondo la leggenda, chiese ai milanesi di aspettare il suo ritorno da un pellegrinaggio prima di iniziare le celebrazioni quaresimali. Per questo motivo, il periodo carnevalesco si allungò di qualche giorno. Ogni regione ha la sua tradizione Non c'è festa che si rispetti che non abbia il suo tipico dolce e a Carnevale è tempo di chiacchiere o, come vengono chiamate a Roma, di frappe . O, ancora, di bugie . Già, perché la tipica leccornia del periodo più colorato dell'anno non ha lo stesso nome in tutta Italia: ogni regione le chiama in modo diverso: chiacchiere, cenci, frappe, sfrappe, sfrappole, manzole, bugie, galani, intrigoni, lattughe, maraviglias, fiocchi, fiocchetti. DOMANDE: • Che cos'è il Carnevale e qual è il suo significato nella cultura italiana? • Quali sono alcune tradizioni tipiche del Carnevale in Italia? • Conosci delle maschere famose del Carnevale italiano? Puoi fare degli esempi? • Domande generali sul Carnevale: • Riflettendo sulle differenze culturali: • Come pensi che il Carnevale italiano sia diverso dalle festività australiane? • In Australia esistono feste simili al Carnevale? Se sì, quali sono? • Attività creative: • Se dovessi creare una maschera di Carnevale, quale personaggio o tema sceglieresti? Perché?



















