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Sergio Strizzi e lo sguardo oltre il set

Updated: Aug 31

Roma, in estate, non concede tregua.

L’asfalto ribolle, le piazze si gonfiano di turisti e gli eventi culturali si rincorrono come onde.

Presentazioni di libri, mostre, arene di cinema all’aperto, concerti, festival. Le code davanti

ai musei sono parte del paesaggio urbano: al Palazzo delle Esposizioni, per esempio, le file si allungano per ore davanti alla retrospettiva su Dolce & Gabbana, un caleidoscopio di abiti e lustrini che calamita folle di curiosi.


Ma io scelgo un’altra strada. Non l’ingresso principale, non le scale gremite di visitatori.

Entro da una porta laterale, quasi nascosta, che conduce a un piccolo spazio, Sala Fontana,

dove dal 10 luglio al 10 agosto 2025 è stata allestita la mostra Sergio Strizzi. Lo sguardo

oltre il set.


Chi era Sergio Strizzi? Un fotografo di scena, l’occhio invisibile che ha saputo cogliere il

cinema italiano dal dopoguerra agli anni Novanta, documentando con delicatezza e rigore le atmosfere dei set e i volti che li abitavano. C’è un istante, durante le riprese, in cui il rumore si ferma. Non è silenzio vero – i tecnici si muovono, i riflettori scaldano, i truccatori

sistemano un volto – ma qualcosa sospende il respiro collettivo.

Strizzi non fotografa il glamour, ma la soglia. Quell’attimo in cui l’attore non è più personaggio e non è ancora se stesso: un territorio fragile, quasi proibito, in cui l’umanità

scivola fuori dal copione. È qui che il cinema rivela il suo doppio: quello che vediamo sullo

schermo e quello che resta fuori, negli interstizi, dove forse si nasconde la verità.

Guardare queste immagini oggi, in un’epoca in cui tutto è posa e autopromozione, significa

ricordare che esisteva un tempo in cui lo sguardo era discreto, paziente, capace di attendere

il momento giusto invece di produrlo a forza. Strizzi ci ricorda che la bellezza, come la verità,

non si impone: si lascia sorprendere.


Le fotografie raccolte in mostra – circa sessanta, molte inedite – sono in gran parte dedicate

a Monica Vitti e molte sono scattate nella Torre Galfa di Milano, appena costruita, simbolo

del boom economico. Uno spazio che è esso stesso protagonista: le grandi vetrate, le linee

severe, i pavimenti lucidi come specchi. Tutto parla di modernità, di un’Italia che si affaccia

al futuro.


E in mezzo, Monica. Non la star intoccabile, ma una donna giovane, in bilico tra leggerezza e

inquietudine, che esplora lo spazio come fosse un territorio nuovo. Si siede, si sdraia, si

allunga, si piega. Sorride e si perde. Gioca con una collana come fosse un filo che la lega

all’aria.



Guardandole oggi, quelle immagini hanno qualcosa di vertiginoso. Non raccontano una posa studiata, ma un corpo che cerca una nuova grammatica: come se il femminile italiano del dopoguerra trovasse, proprio lì, la possibilità di essere altro.

Non la donna “oggetto” del cinema glamour, non la diva distante, ma una presenza viva,

fragile e potente, che occupa lo spazio urbano e lo trasforma.

Per ottenere tutto questo, serve uno sguardo che non invada. Strizzi lo possiede.

Il fotografo non interrompe, non forza: attende. I suoi scatti non sono “rubati”, ma accolti.


Vitti non sembra mai in posa, sembra piuttosto in dialogo silenzioso con chi la ritrae. C’è una

fiducia reciproca, un’intesa che consente di oltrepassare il confine tra documento e

rivelazione.

È qui che Strizzi si distingue da tanti altri fotografi di scena. Non registra un’immagine da

conservare, non archivia un istante per i giornali. Cattura l’invisibile: quel lampo che vive tra

una mossa e l’altra, tra il dentro e il fuori. Un ladro gentile, lo hanno definito. E davvero è

così: non porta via nulla, se non la verità fragile dell’attimo.


Guardando le immagini, si ha l’impressione di assistere alla nascita di una femminilità

diversa. Non più solo musa o attrice, non più solo corpo da filmare. Vitti diventa soggetto

attivo, presenza che inventa un modo di abitare lo spazio. È la donna che esplora, che gioca,

che si concede di cadere e di rialzarsi. La sua leggerezza non è frivola: è un modo per sfidare

la gravità delle convenzioni.


In questo senso, Strizzi non fotografa Monica Vitti: fotografa un passaggio culturale. Quello

di un Paese che dalla provincia contadina si affacciava alla metropoli moderna, e di un

cinema che smetteva di raccontare solo storie e cominciava a interrogarsi sul senso stesso

delle immagini.


L’aspetto più attuale di questa mostra non è però solo storico o cinematografico: è etico.

Strizzi ci ricorda che guardare non significa possedere. Che l’immagine può nascere dalla

discrezione e dalla fiducia, non dall’invadenza.


È una lezione preziosa in un tempo saturo di fotografie costruite per mostrarsi, in cui ogni

gesto è performativo. Qui invece la fotografia restituisce la verità di un incontro, il valore di

un istante condiviso.

Guardare, oggi come allora, è un atto politico. È scegliere la delicatezza invece della

conquista, la vicinanza invece della distanza.


Quando si esce dalla sala del Palazzo delle Esposizioni, si torna nel rumore della città. Le file

davanti alla moda continuano, i turisti si accalcano, la Roma estiva scorre con la sua vitalità.

Eppure, chi ha attraversato quella porta laterale porta con sé una traccia diversa: il silenzio

sospeso di Monica Vitti sopra Milano, la grazia di un gesto che non voleva durare e invece è

rimasto per sempre.

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